25 Ott

Arte Povera

Scritto da Marcello Parilli – Corriere della Sera

«Legno, sabbia, pietre: creatività concreta che dopo quarant’anni pulsa ancora»

Verrebbe quasi da chiamarla «Operazione Arte Povera», questa monumentale mostra-evento che ha l’ambizione di esporre l’intero percorso creativo del movimento d’avanguardia nato a fine anni 60, secondo criteri del tutto nuovi, e che certamente ne costituisce la più completa antologica mai allestita. Non un luogo espositivo, ma otto sedi tra musei e istituzioni culturali in sette città diverse (vedi box nella pagina accanto), non uno spazio tradizionale e circoscritto, ma 15 mila metri quadrati spalmati nei musei d’arte contemporanea di tutta Italia dove allestire opere spesso gigantesche che richiedono aria, luce e prospettiva per essere allestite e fruite in modo corretto. Anche i muri e pavimenti bianchi (è il caso della Triennale di Milano) fanno scomparire il museo-contenitore regalando per contrasto la ribalta a queste opere asciutte, dirette, grezze, assemblate con metalli, tessuti, minerali, pietre e legni segnati dal tempo che parlano dell’uomo e del suo rapporto più profondo e universale con la natura.
«Una formula in qualche modo mutuata dal Guggenheim Museum di New York, dove ho lavorato quasi vent’anni — dice Germano Celant, curatore della mostra e vero artefice, critico e storico del movimento fin dalle sue origini —. Ci si rese conto che non si riusciva a esporre più del 3% delle opere. Così il museo venne ampliato non costruendo altri edifici in loco, ma aprendo nuove sedi in altri Paesi. Allo stesso modo, in questo caso sarebbe stato impossibile realizzare in un unico luogo una mostra con lo spazio adeguato e tutte le opere necessarie per dare un’idea esaustiva del movimento. Così abbiamo messo intorno a un tavolo i direttori dei più grandi musei d’arte contemporanea italiana, una specie di pacchetto di mischia, e abbiamo unito le forze per realizzare questa specie di sogno. Un prototipo di sinergia che in Italia non ha un presente significativo ma potrebbe avere molto futuro».
La vera e propria idea della mostra, invece, è nata da un libro, che ha tutta l’aria di scrivere la parola definitiva sull’argomento, e di cui l’evento è diventato una vera e propria appendice espositiva. Si tratta di «Arte Povera – Storia e storie» (560 pp, 70 euro, Electa) che raccoglie tutti gli scritti dello stesso Celant sull’Arte Povera dal 1967 al 2011 e che contiene la ristampa in copia anastatica del catalogo storico «Arte Povera – Storia e protagonisti» del 1985.
«Arte Povera 2011» potrebbe essere il primo caso di mostra itinerante, dove a itinerare non sono le opere (250 installazioni tra Milano, Bari, Bergamo, Bologna, Napoli, Roma e Torino), ma lo spettatore: ognuna delle mostre affronta infatti un diverso aspetto dell’Arte Povera (il 68, lo spazio, il teatro, la città, etc.) e chi volesse farsene un’idea completa farebbe bene a liberarsi qualche weekend di qui ad aprile, mese nel quale si concluderà l’iniziativa.
La mostra milanese, promossa dal Museo d’Arte Contemporanea di Rivoli-Torino e da Triennale di Milano con il coordinamento di Electa, sarà aperta fino al 29 gennaio 2012 e sfoggia un titolo dal taglio antologico, «Arte Povera 1967-2011»: a piano terra, in spazi limitati, si trovano le opere storiche realizzate tra il 1967 e il 1975, con gli esordi di maestri del movimento come Pistoletto, Kounellis, Fabro, Boetti e Anselmo (lo stesso partner della mostra, Mercedes Benz Italia, esporrà nella sua sede milanese di via Gallarate l’opera di Pistoletto «Love Difference»). Al primo piano, invece, gli spazi esplodono e ospitano opere spesso mastodontiche messe in dialogo tra loro, di fatto la prosecuzione di una storia che, dal 1975 al 2011, ha continuato a produrre suggestioni nonostante il funerale del movimento fosse stato già celebrato nei primi anni 70 e il contesto sia oggi completamente diverso.
«Milano è il nodo principale di questa mostra a rete che la riporta al centro dell’arte contemporanea — dice l’assessore alla Cultura, Expo, Moda e Design Stefano Boeri —: anche se il movimento è nato altrove, qui lavoravano i galleristi e collezionisti che hanno recepito con intelligenza l’intuizione di Celant. Un’intuizione che oggi va celebrata perché l’Arte Povera, come tutte le correnti che mettono insieme una polifonia di idee, ha depositato il suo dna in tutta l’arte contemporanea».
Un movimento artistico, l’Arte Povera, figlio di un momento storico, sociale e politico ben preciso che ha prodotto una rivoluzione creativa generalizzata. Ma anche a 40 anni di distanza la forza propulsiva non è andata del tutto perduta: «L’Arte Povera si adatta come un animale strano al contesto. L’opera continua a cambiare, ad adattarsi a una parete, a un pavimento, a essere fisicamente vitale. Per questo è ancora attuale — dice Celant —. Ma soprattutto mi sto ponendo il problema di una storia dell’arte globale. L’iconografia non è in comune, ma i materiali sì. Io comprendo l’immagine del Cristo, un altro di Buddha. Ma tutti capiamo il calore, la sabbia, le pietre. Una cultura fattuale primaria che è patrimonio e linguaggio comune. Su questo c’è ovunque un’attenzione rinnovata e quindi un futuro globale».

18 Ott

Cézanne. Gli occhi del Midi

Scritto da Francesca Montorfano – Corriere della Sera

Nella sua Provenza trovò l’ispirazione originaria Dipinse i grandi capolavori tra boschi e atelier

Pare ancora di vederlo, Cézanne, il cavalletto sulle spalle, il bastone in mano, vagabondare per le campagne e le colline dell’amata Provenza, la possente montagna Sainte Victoire con i suoi versanti scoscesi e i crinali, le rive ombrose dei fiumi, i tetti rossi dei villaggi sul blu cobalto del mare. «Il paesaggio è splendido. Vedo delle cose magnifiche. Non voglio allontanarmi neanche di un passo dalla natura», scrive nel 1866 all’amico Zola, non stancandosi mai di arrivare a una comprensione viva di quanto lo circonda, di trasformare il profumo della terra, il calore delle rocce, il soffio del mistral, in armonie nuove di forme e colori. Dipingere en plein airsur le motif, diventa per Cézanne lo scopo stesso dell’esistenza. Un imperativo che lo accompagnerà fino ai suoi ultimi giorni, all’ottobre del 1906, quando un violento temporale lo sorprenderà mentre ancora una volta sta lavorando all’aperto, causandogli quell’affezione polmonare che in poco tempo lo condurrà alla morte.

Sicuramente Cézanne è legato a Parigi, dove studia Vélazquez e Caravaggio, Courbet e Delacroix, dove frequenta gli impressionisti e ne condivide il dissenso con la cultura artistica ufficiale, dove conosce estimatori come il dottor Gachet o Ambroise Vollard, il giovane gallerista che nel 1895 gli organizza una personale, salutandolo per la prima volta come maestro. Ma è l’aspro e solitario Pays d’Aix delle sue origini la fonte della sua ispirazione, lo scenario per eccellenza delle sue esperienze creative. Così come lo sono i tanti atelier del Midi dove l’artista rielabora e trasferisce sulla tela quanto i suoi occhi hanno colto dal vero, creando capolavori assoluti, immagini vibranti di intensità e di luce.

Luoghi ricchi di suggestione e memorie che la grande mostra di Palazzo Reale curata da Rudy Chiappini consente oggi di conoscere più da vicino, ripercorrendo la vicenda biografica ed artistica del pittore, approfondendo i temi a lui cari da un’ottica nuova, particolare, il suo rapporto con la Provenza. «È la grande casa di famiglia del Jas de Bouffan il laboratorio delle sue ricerche giovanili, dove Cézanne dipinge anche sui muri di gesso per affermare il sogno di diventare pittore e vincere l’ostracismo del padre, il severo banchiere Louis-Auguste che non approva le scelte del figlio. Atelier privilegiati si riveleranno in seguito anche la soffitta dell’appartamento di Rue Boulegon, il capanno di Bibémus, i locali affittati a Château Noir, la piccola casa con giardino a l’Estaque», sottolinea Rudy Chiappini.

Qui nascono le sue prime, grandi prove, le opere dove si misura con gli antichi maestri, i lavori contraddistinti da una febbrile forza drammatica e colori cupi, dagli impasti corposi. Qui, a contatto con la pittura luminosa di Pissarro, la sua tavolozza si farà più chiara, più leggera la stesura data a piccoli colpi di pennello, mentre ai tanti paesaggi, ai ritratti di amici e famigliari, ai fumatori si alternano le bagnanti e le nature morte.

«Ma ecco che a partire dalla fine degli anni Settanta la sua visione della realtà si allontana da quella dei compagni di strada e Cézanne rifiuta la fugacità dell’impressione, il dissolvimento della forma nelle vibrazioni della luce, trasformando figure, oggetti e paesaggi in un gioco di linee e volumi, “secondo il cilindro, la sfera e il cono”, come scrive all’allievo e amico Émile Bernard», continua Rudy Chiappini. «Traghettando così la pittura della tradizione verso nuovi orizzonti, aprendo la strada ai cubisti, a Picasso e alle sperimentazioni tutte delle avanguardie». Ma un altro spazio ancora, un altro luogo della mente e del cuore attende Cézanne agli inizi del Novecento per offrirgli nuovi punti di vista, l’atelier che l’ormai anziano pittore vorrà farsi costruire sulla collina brulla dei Lauves. Ed è nelle stupende nature morte, nelle ultime vedute della montagna Sainte Victoire, sua musa preferita, che ritrarrà per ben quaranta volte, nei delicati acquarelli di questi anni che la sua pittura decanterà in una dimensione di assoluta purezza, arrivando all’essenza delle cose, creando immagini universali, senza tempo.

14 Ott

In viaggio con Picasso ecco il museo portatile

Scritto da LAURA PUTTI – la Repubblica

Il Centro Pompidou di Parigi manda in tournée nei piccoli centri della Francia una selezione di opere. Tele, video e installazioni sono esposti sotto un tendone colorato per avvicinare tutti ai capolavori.  Dice il presidente del Beaubourg, Saban: “Porterei in provincia anche Leonardo”
CHAUMONT-SUR-MARNE

Tre tendoni da circo, ma a forma di rombo, sono montati sulla piazza di un parcheggio alla periferia di Chaumont, cittadina di poco più di ventimila abitanti a sud-est di Parigi, Francia profonda, due ore e mezzo di treno dalla capitale. Il colore esuberante dei tre tendoni uniti tra loro (tetti rosso-blu, blu-arancio e arancio-rosso) contrasta con il grigio del cielo, dei palazzi circostanti, e anche con quello dei pochi passanti. Ieri, grazie alle tensostrutture colorate, gli abitanti di Chaumont hanno ricevuto la visita del presidente Sarkozy, e domani entreranno ufficialmente a fare parte della Storia. Dell´arte. I tre tendoni sono il Centre Pompidou Mobile, primo esperimento al mondo di museo smontabile, e sotto il titolo La couleur espongono quattordici tra i capolavori della collezione del museo parigino disegnato da Renzo Piano e Richard Rogers. Le pareti colorate scorrono su dritte d´acciaio come le rande delle barche a vela; la tensostruttura non ha fondamenta, è sostenuta da sottili cavi d´acciaio e ancorata al suolo da grandi sacchi blu pieni di acqua. Tra tre mesi il museo cambierà di luogo e sarà rimontato a Cambrai; nel maggio 2012 a Boulogne-sur-Mer nel grande nord francese, poi via verso altre destinazioni, di tre mesi in tre mesi, per cinque anni. Costo totale: due milioni e mezzo di euro (tra museo, ministeri di Cultura ed Educazione e sponsor privati) più duecentomila a carico di ogni città visitata.
Il Beaubourg nomade è nato dalla fantasia di Alain Seban, energico presidente del museo parigino. Nel 2007, appena insediato, Seban si domanda: quanti francesi hanno, nella loro vita, visitato un museo? La risposta è: uno su due. Se il francese di provincia non va a Picasso, Picasso andrà al francese di provincia, decide Seban e indice un concorso per un museo smontabile. Lo vince l´architetto Patrick Bouchain con un museotenda «leggero, allegro, nello spirito del circo ambulante e delle feste di piazza», e colorato, nello spirito dell´opera di Piano & Rogers. Ma Seban preferisce definirla un´opera normale, perfetta per rassicurare un pubblico non abituato ai capolavori. «Il museo deve uscire da se stesso e andare verso un nuovo pubblico» dice, seduto in un salottino chiuso da una parete di cerata rossa. «Se fosse possibile si dovrebbe portare in provincia anche Leonardo o Gericault. Il Centre Pompidou dà in prestito moltissime opere: che la cultura si muova è la nostra idea fondamentale». All´interno delle tende, in teche di legno protette da vetri antiscasso e da sofisticati quanto invisibili impianti di sicurezza, c´è un´infilata impressionante di arte moderna: Kupka, Picasso, Matisse, Dubuffet; Braque (con la cornice rifatta da un falegname di Chaumont!), Albers, Klein; Calder, Léger; Sonia Delaunay (1938) confrontata a un´installazione in movimento di Olafur Eliasson (2004) in una saletta che da sola meriterebbe la visita; un video di Bruce Nauman accanto a una enorme coloratissima mucca di Niki de Saint Phalle. Tutti scelti dalla commissaria Emma Lavigne («Davanti a quanti quadri ci si ferma durante una visita guidata? Non più di dieci. Qui abbiamo portato quei dieci»), già assemblatrice, alla Cité de la Musique, di mostre su Lennon, Hendrix e altri miti della musica. Il Pompidou Mobile è aperto sei giorni alla settimana, l´ingresso è gratuito. Le visite saranno guidate da attori locali che spiegheranno ai ragazzi (dalle elementari al liceo) la magia del colore nella storia dell´arte.

13 Ott

FALCE E PENNELLO I GRANDI QUADRI DEL REGIME

Scritto da Giuseppe Dierna – la Repubblica

L´arte sovietica in due mostre al Palazzo delle Esposizioni di Roma Dalla pittura verista di Stato al genio creativo dei maestri
Una macchina che per più di mezzo secolo ha prodotto consenso e propaganda Quello che colpisce maggiormente sono le dimensioni iperboliche delle opere esposte ROMA
In un olio alquanto provocatorio di Vitalij Komar e Aleksandr Melamid del 1982 il realismo socialista è rappresentato come una musa vecchia maniera che con la mano sinistra ricalca sul muro l´ombra del profilo, proiettata sulla parete – alla luce di una flebile torcia – da uno Stalin irrigidito nella sua abituale divisa da Generalissimo. Un´ombra del Potere, un calco elegante e minuzioso eseguito con la mano sbagliata. La mostra Realismi socialisti. Grande pittura sovietica 1920-1970 (al Palazzo delle Esposizioni fino all´8 gennaio), cerca di problematizzare quest´immagine un po´ semplificata del realismo socialista come monolitica arte di regime, decisa nel politbjuro e messa in circolo dal volano delle asservite associazioni artistiche, che ha di fatto bloccato in URSS il naturale sviluppo delle arti. Una macchina che per più di mezzo secolo ha prodotto propaganda e consenso, offrendo la richiesta visione edulcorata della società e dei suoi leader, e questo grazie ad artisti disposti – in buona ma spesso in cattiva fede – a chiudere gli occhi sul sanguinoso apparato repressivo che lo stesso politbjuro introduceva nel paese.
Introdotto nel discorso critico sovietico già a partire dal 1932 e codificato come “metodo” dagli interventi di danov e Gorkij al Primo congresso degli scrittori sovietici a Mosca nel ´34 (dove, tra l´altro, Radek aveva definito Joyce – prototipo dello scrittore d´avanguardia – «un mucchio di letame brulicante di vermi fotografato attraverso un microscopio»), il realismo socialista – in quella tranciante definizione – poneva ai nuovi ingegneri delle anime umane il compito di «descrivere fedelmente la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario». Definizione già sufficientemente ambigua da produrre molteplici interpretazioni (e così del resto avvenne), ma anche del tutto parca di indicazioni sugli aspetti specifici della creazione artistica.
E se l´imposizione del realismo socialista avviene, in fondo, in piena coincidenza con quel ritorno all´ordine e al figurativo che attraversa la pittura europea dalla metà degli anni Venti, producendo ovunque – come sistemica reazione all´astrattismo avanguardistico – Neoclassicismi e Nuove Oggettività, in URSS la discussione sulle modalità di un´arte “realista” incomincia in realtà subito all´indomani della rivoluzione del ´17, quando Anatolij Lunacarskij, commissario del popolo all´Istruzione, teorizza per la futura arte proletaria quello che definisce un «idealismo realistico», in cui già si anticipa il carattere utopico del modello realsocialista, la sua caratteristica di futuro (o presente) idealizzato.
Nato da tali premesse, il realismo rappresentato qui da tele che coprono un cinquantennio della produzione sovietica, non potrà essere che una molteplicità di realismi: dalle dettagliatissime scene d´insieme che immortalano importanti cerimonie pubbliche a rappresentazioni come da pittura popolare (come l´enorme sbandieratore bolscevico di un olio del 1920, gigantesco tra manifestanti lillipuziani); dal bozzetto minimalista di vita quotidiana, come attinto dai realisti tardottocenteschi, al ritratto olografico dei potenti che rimanda al trionfalismo barocco; dalle luminose scene di lavoro sui campi, dalla messa in scena dei collettivi di lavoratori, alla rappresentazione di gruppi ormai sfilacciati, monadi autonome tenute insieme solo da uno sfondo (Costruttori di Bratsk, 1960) o da un´attività comune (Ginnasti dell´URSS, 1964-´65); per arrivare infine alla serie che Gelij Korev dedica al ricordo del conflitto bellico (Bruciati dal fuoco di guerra), spezzando la predilezione realsocialista per la figura intera, ingigantendo non più il corpo ma un semplice dettaglio: il viso di un uomo senza un occhio, un abbraccio, lo scorcio di un reduce coperto di cicatrici: ingrandimenti di una sofferenza che non ha più bisogno di una narrazione eroica.
E ci sono poi interpretazioni ancora più personali, come la Formula del proletariato di Pietrogrado (1920-´21) dell´enigmatico Pavel Filonov, mosaico di cerchi e sghembi cristalli di case, punteggiato dal ritorno continuo di un volto, lui solo reso con tratti realistici. O quadri che per il loro iperrealismo spingono a tristi considerazioni sul rapporto tra pittura e fotografia, come il ritratto – a grandezza naturale – di Vorošilov, Commissario del Popolo per la Difesa, sugli sci. Studiando la documentazione nel ricco catalogo che accompagna la mostra (a cura di M. Bown e M. Lafranconi, Skira, pagg. 280, euro 49) scopriamo che, prima di mettersi all´opera, il pittore Isaak Brodskij aveva chiesto al suo segretario di spedirgli «tutte le foto che lo ritraggono sugli sci». Per lo sfondo, invece, Brodskij non pareva aver avuto problemi, attingendo – verrebbe da pensare – direttamente ai Cacciatori nella neve (1565) di Pieter Brueghel. Un´abitudine, questa di utilizzare fotografie invece del modello reale, che aveva in altra occasione scatenato la reazione piccata del fotografo dell´ormai defunto Lenin, che si sentiva defraudato dei lauti guadagni dei ritrattisti postumi. Questioni di realismo.
Visitando la mostra, quello che però maggiormente colpisce sono le dimensioni iperboliche di molte delle opere esposte, che talvolta vanno anche a superare i cinque o sei metri, come se la monumentalità dell´epoca e dei soggetti dovesse necessariamente passare attraverso il puro còmputo di base e altezza. Così in Guida, maestro e amico Stalin ascolta, immobile e cortese, le proposte di un gruppo di kolchoziani come squassati da una folata di vento, come apostoli dell´Ultima cena. In un´altra tela, invece, il giovane capitano Judin osserva soddisfatto, tra i carristi del Konsomol, lo striscione per il ventesimo anniversario dell´Armata Rossa su cui s´inneggia alla “famiglia socialista”, ma l´immagine che s´intravede è quella di un soldato con la baionetta inastata. Imponente, infine, il Trionfo del popolo vittorioso (1949) di Michail Chmel´ko: su una Piazza Rossa come in cinemascope, i soldati tedeschi depongono vessilli e insegne ai piedi degli alti ufficiali russi. Stalin è in alto, mescolato agli altri notabili, defilato. Ma all´incrocio degli sguardi dei presenti.

13 Ott

Il mondo obliquo del ribelle Rodcenko

Ultimo aggiornamento Giovedì 13 Ottobre 2011 06:49 Scritto da LEA MATTARELLA – la Repubblica

La breve stagione dell´avanguardia dopo la Rivoluzione russa: il Costruttivismo
La ragazza sorridente che incita alla lettura, creata da Aleksandr Rodcenko per la pubblicità della sezione di Leningrado della casa editrice di Stato nel 1925, è un´immagine-simbolo. Concentra in un grido gioioso il racconto del sogno, dell´illusione, della grande utopia di un popolo e di un gruppo di artisti che credeva davvero di poter cambiare il mondo. Com´è andata lo sappiamo tutti, ma in quel momento, come afferma Ol´ga Sviblova curatrice della personale che Palazzo delle Esposizioni dedica a questo grande rivoluzionario dello sguardo, «sperimentazione artistica e sociale coincidevano».
E così ecco Rodcenko attraversare la fotografia, il cinema, il fotomontaggio e inventare un linguaggio per il nuovo spirito dei tempi. Nato nel 1891 a San Pietroburgo e scomparso nel 1956 in una Russia diventata Unione Sovietica che, dagli anni Trenta in avanti, ne aveva mortificato l´entusiasmo rivoluzionario fino a impedirgli di lavorare espellendolo dall´Unione degli artisti, questa figura poliedrica è stata una delle più affascinanti dell´avanguardia russa nel suo movimento più significativo: il Costruttivismo. Gli scatti e le invenzioni dell´artista, circa 300, sono raccolti in questa esposizione e rivelano tutta la modernità di un punto di vista che niente ha a che vedere con il “realismo socialista” teorizzato dal governo sovietico come stile necessario al nuovo corso politico. Da qui le sofferenze e le fatiche di un uomo che diceva: «Voglio guidare il popolo all´arte, non usare l´arte per condurre il popolo chissà dove», e nei suoi diari prometteva di non fare più le “prospettive sbagliate” che tanto disturbavano i governanti. Ma poi aggiungeva: «non posso farci niente, la mia mano va da sola». Ecco i geniali fotomontaggi, gli interventi per libri e riviste: figure che si sovrappongono e si accavallano, inventano spazi, modificano la realtà con ironia, divertimento, senso della cronaca. «La fotografia è scrittura dei fatti» affermava. In bianco e nero scrive la storia di un momento che cercava di essere eroico ed è diventato tragico. Lo fa inquadrando i volti, come quello, celebre, della madre, ma anche quelli di attori, poeti, scrittori, la moglie Varvara Stepanova, artista come lui, indimenticabile con la sua sigaretta tra le labbra. Anche Majakosvkij fuma e guarda nell´obiettivo, siamo nel 1924; si ucciderà sei anni dopo.
Ma la cosa straordinaria di Rodcenko è la singolarità del punto di vista sulla città: diagonali, vedute dall´alto e dal basso rendono dinamici i palazzi e le piazze di Mosca. E anche la vita dei suoi abitanti. Ci sono scale, gradinate e reticoli di ombre che sono capolavori di silenzio. E poi momenti in cui anche la folla sembra ordinata. Niente è come sembra. Rodcenko inquadra un mondo inclinato che non può certamente piacere al regime. Anche quando realizza reportage sullo sport, sulla gioventù sovietica, sui lavoratori, la sua mancanza di retorica, il suo occhio concentrato sull´inaspettato sono sempre un inno alla libertà, quasi una denuncia del fatto che l´Unione Sovietica vuole trasformare gli esseri umani in ingranaggi di una macchina terribile. Inquadra la natura e chiama i boschi Legname, per evocare subito l´idea del lavoro, delle costruzioni a cui questo materiale sarà destinato. E tuttavia non riesce a tradire il suo sguardo romantico: file di pini che svettano in uno spazio infinito. Ma nei suoi scatti malinconici di foreste in bianco e nero, qualche albero si spezza. «Come fosse una metafora della vita e degli ideali di Rodcenko» suggerisce la Sviblova.

11 Ott

Quando Togliatti scomunicò il gruppo degli «scarabocchi»

Ultimo aggiornamento Martedì 11 Ottobre 2011 15:53 Scritto da PAOLO FRANCHI – Corriere della Sera

Certo, in Italia la divisione a sinistra tra i «realisti» di varie scuole, e quella più aspra tra realisti e astrattisti è già cominciata da un pezzo, Lionello Venturi ha introdotto su Domus la distinzione tra «astratto e concreto», già nel ’46, lo stesso anno in cui viene pubblicato a Milano il manifesto realista «Oltre Guernica»; nel ’47, a Roma, è nato il gruppo Forma 1, a Milano il Fronte nuovo delle arti. Certo, a Mosca è già all’opera Andrej Zdanov. Ma lo zdanovismo italiano nelle arti da noi si fa esplicito nell’ottobre del ’48. Palmiro Togliatti si è ripreso bene dalla sconfitta di aprile e dall’attentato di luglio, può riprendere, su Rinascita, i panni di Roderigo di Castiglia. Lo fa per stroncare una mostra bolognese dell’Alleanza per la cultura: una raccolta di «cose mostruose», di «orrori e scemenze», di «scarabocchi», scrive, mostrandosi scientemente assai più rozzo in materia di quanto non sia: nel ’44, per dire, ha stupito Curzio Malaparte, riconoscendo al volo un Dufy nella villa caprese dello scrittore. Non ce l’ha solo con i pittori, Roderigo. Si chiede come mai nella rossa e dotta Bologna ci siano «tante buone persone» disposte a certificare che l’esposizione di simile robaccia sia un avvenimento artistico. Si risponde che quelle brave persone, in realtà, la pensano come lui e, soprattutto, come il popolo lavoratore, ma credono che «per apparire uomini di cultura sia necessario… darsi l’aria di superintenditore e superuomo, e biascicare frasi senza senso». E conclude esortandoli a fare come il ragazzino di Andersen, a dire «che il re è nudo, che uno scarabocchio è uno scarabocchio»), anche nell’interesse degli «artisti o presunti tali»: «Certo si arrabbieranno, sulle prime, ma poi farà bene anche a loro».

Insomma: gli intellettuali (non solo i pittori) compresi, come nel nostro caso, quelli iscritti al partito o molto simpatizzanti, vanno mazzolati per il loro bene. Anni terribili. Poche settimane dopo il 18 aprile, Mario Scelba, a proposito degli uomini di cultura (numerosissimi) che si erano schierati per il Fronte Popolare, aveva parlato sprezzantemente di «culturame»; adesso Togliatti ricorre più o meno allo stesso linguaggio per parlare di artisti che, in ultima analisi, stanno dalla sua stessa parte della barricata. E che, nella maggior parte dei casi, nonostante tutto ci resteranno, almeno fino al terribile ’56, continuando magari a proclamarsi «formalisti e marxisti», come si dichiarano nel loro manifesto (1947) i fondatori del gruppo Forma 1, Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra (che nella campagna elettorale del ’48 ogni giorno trascina fino alle scalinate di Trinità dei Monti una sua statua di ferro astratta inneggiante al Fronte), Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giuseppe Turcato. È un mondo variegato e anche affascinante quello dei pittori «astrattisti e comunisti»: forse il racconto più bello (e malinconico), compresi i duelli a distanza con Renato Guttuso e Antonello Trombadori, divenuti ai loro occhi i sergenti del realismo socialista all’italiana, è quello che ne fa Ugo Pirro, nella sua «Osteria dei pittori».

Il Fronte nuovo delle arti, che aveva organizzato la mostra bolognese, si scioglie rapidamente. Guttuso, Mafai, Consagra, Leoncillo e Turcato, che vi avevano partecipato, scrivono su Rinascita per prendere qualche distanza da Togliatti, chiedendo che non venga stroncata la giusta aspirazione degli artisti italiani, specie i più giovani, a riprendere quel confronto con le esperienze di avanguardia che il fascismo aveva cercato di impedire. Ma, almeno per Guttuso, i distinguo finiscono qui. Ormai è agli atti che la politica culturale del Pci fa suo un concetto, quello della partiticità dell’arte, che è uno dei cardini dello zdanovismo. Anche nel mondo delle arti quel che conta è la lotta di classe e lo scontro tra imperialismo e socialismo, il realismo (magari non socialista, perché in Italia il socialismo non c’è) diventa sinonimo di una concezione progressista dell’arte, l’astrattismo del suo esatto contrario. Del suo, Togliatti ci mette un irrefrenabile fastidio per tutte o quasi le avanguardie, lo stesso che lo fa accapigliare con Massimo Mila su Shostakovich e la musica dodecafonica.

Nella realtà, le cose vanno un po’ diversamente. Lo zdanovismo all’italiana fatica ad attecchire, e dopo il ’56 viene ufficialmente archiviato: non spetta al partito intervenire nel merito dei dibattiti filosofici o artistici. Zdanov non c’è più, Stalin nemmeno. Nel ’62, quando il destalinizzatore Krusciov definisce dipinti «con la coda dell’asino» i quadri astratti esposti sulla Piazza Rossa, non c’è un dirigente comunista italiano, nemmeno il più acceso sostenitore del realismo, disposto a seguirlo.

11 Ott

Realismi socialisti. Oltre la propaganda

Scritto da Lauretta Colonnelli – Corriere della Sera

DUE MOSTRE A ROMA A PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI

Non solo «kitsch di regime» ma molte ispirazioni e arte di qualità: 66 opere per superare un pregiudizio storico

 

Per meglio comprendere la mostra «Realismi socialisti», aperta da oggi nelle gallerie del Palaexpo, conviene cominciare da un’altra rassegna, quella su Aleksandr Rodcenko, allestita nelle sale adiacenti: trecentoquaranta opere tra fotografie originali, fotomontaggi e stampe vintage ripercorrono la parabola del grande fotografo che fu anche pittore, designer, grafico, esponente del Costruttivismo, la corrente artistica che prendeva spunto dalle nuove forme dell’industria e dell’architettura.

Qui, accanto a scatti ormai entrati nell’immaginario collettivo, come quelli che ritraggono il volto inquieto del poeta Majakovskij o della sua amante Lili Brik con la mano vicina alla bocca come se stesse urlando in un microfono, si dipana l’intero universo dell’Urss dal 1924 al 1954. Ogni particolare è ripreso da Rodcenko da angolazioni e prospettive vertiginose: le nuove costruzioni con le loro scale antincendio e le facciate irte di balconi, le imponenti manifestazioni nelle piazze e le ruote dentate nelle officine, le parate militari e le gare sportive, gli spettacoli al Bolscioi e le acrobazie del circo. Perfino i volti di familiari e conoscenti sembrano forme di architettura modernista, ripresi dal basso in alto o viceversa.

Nelle immagini di Rodcenko è documentata la sorgente della straordinaria stagione creativa e intellettuale nota come «avanguardia russa». Esplosa insieme con la Rivoluzione d’Ottobre e alimentata negli anni Venti dalla visione di un «radioso avvenire», questa sorgente sarebbe stata poi rigidamente incanalata, verso la metà dei Trenta, nelle regole dettate dai bolscevichi.

Rimaneggiando lo slogan della pasionaria tedesca Rosa Luxemburg «l’arte deve essere compresa dal popolo» in «l’arte deve essere comprensibile al popolo», le autorità sovietiche guidate da Stalin definirono con esattezza il compito che spettava agli artisti. Il nuovo stile, a cui tutti si dovevano attenere, era quello del cosiddetto Realismo socialista. L’unico committente era lo Stato e le infinite commissioni giudicatrici correggevano addirittura le tele in corso d’opera. Con un risultato estetico devastante: il fenomeno non è stato neppure preso in considerazione dai libri occidentali di Storia dell’arte.

Storici come Ekaterina Degot (autrice anche di un saggio nel catalogo della mostra al Palaexpo e curatrice, dieci anni fa a San Pietroburgo, di una rassegna sulla biancheria intima ai tempi dei Soviet) paragona a quella biancheria, «misera e artigianale», qualunque quadro dell’epoca sovietica: «pittura figurativa a olio troppo sciatta per essere detta accademica e troppo brutta – per il gusto moderno – per essere ammirata».

Ancora più fulminante la definizione di Milan Kundera nel suo celeberrimo «L’insostenibile leggerezza dell’essere»: kitsch totalitario.

La mostra romana, che raccoglie sessantasei tele di grande formato realizzate tra il 1920 e il 1970 da artisti sconosciuti in occidente, ma anche da maestri già protagonisti dell’avanguardia come Kazimir Malevic, Aleksandr Deineka e Pavel Filonov, si propone di ribaltare per la prima volta queste posizioni.

Voluta da Emmanuele Emanuele, con un formidabile catalogo curato dai maggiori specialisti internazionali e destinato a restare un punto di riferimento per gli studiosi, la rassegna sul Realismo socialista è la più completa di questo movimento mai presentata fuori dalla Russia.

«Quella che viene proposta qui – dice Emanuele – è una visione senza pregiudizi su mezzo secolo di storia artistica di una superpotenza planetaria, con l’idea di sottrarla alle interpretazioni svolte in chiave propagandistico-politica, di confutare una volta per tutte l’opinione di un Realismo socialista stilisticamente monolitico e riconsiderarne la questione della qualità».

«L’eroe dell’Unione Sovietica visita le truppe del KomSoMol» (1938) di Vasilij LaktionovTanto per cominciare non esisterebbe un solo Realismoma tanti, come suggerisce il titolo della mostra. Il fenomeno, avendo coinvolto per decenni migliaia di artisti impegnati capillarmente sul territorio di un impero immenso e molto variegato dal punto di vista etnico, sarebbe infatti troppo esteso per essere ricondotto a una corrente isolata.

Come si può vedere nel percorso al Palaexpo, si va dalle tele celebrative dei vari congressi del partito ai ritratti apologetici di Stalin «guida, maestro e amico», dalle composizioni futuriste di Filonov alle figure frontali di Malevic che rendono omaggio alla tradizione dei pittori di icone, dal realismo provocatorio e angoscioso dei dipinti di guerra alla rappresentazione della vita quotidiana, dove perfino una piantina di ficus inserita da Laktionov nell’«Appartamento nuovo» venne censurata in quanto «ideologicamente scorretta».

11 Ott

I gesti su tela di Lenin e Stalin ricordano Leonardo e Raffaello

Ultimo aggiornamento Venerdì 14 Ottobre 2011 05:58 Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

L’iconografia trae spunto dai classici del Rinascimento

Ignorato dalle storie dell’arte o al massimo archiviato come il manierismo che mise la pietra tombale sulle sperimentazioni dell’avanguardia russa del primo ventennio del Novecento, il Realismo socialista è perlopiù considerato un «incidente» imposto dal totalitarismo piuttosto che uno stile artistico a tutti gli effetti cui aderirono migliaia di pittori e scultori in un territorio vastissimo, esteso anche alla Cina dove gli artisti che oggi piacciono all’art system internazionale, venduti in Occidente per milioni di dollari, ne sono gli allievi diretti.

Dimenticano, i suoi censori, che non solo, in quegli stessi anni, l’intera Europa fu attraversata da diversi realismi e «ritorni all’ordine» (dalla Nuova Oggettività tedesca al movimento italiano di Novecento al realismo americano, solo per citarne tre); ma anche e soprattutto che il realismo socialista si inserisce a pieno titolo nella sequenza degli «ismi» in cui siamo soliti scandire la storia dell’arte proprio perché ne fu un anello perfettamente integrato.

La formazione accademica dell’artista in epoca staliniana era infatti basata sulla tradizione che comportava la padronanza del disegno, della composizione e la conoscenza del repertorio iconografico classico, in particolare del Rinascimento italiano, ma anche della pittura sacra russa.

Prendiamo, per esempio, un quadro come «Il congresso panrusso dei Soviet» di Nikolai Pagodin (peraltro una replica da Belovsov): l’idea di Lenin che si rivolge a un gruppo di delegati del Congresso che interagiscono animatamente fra loro attraverso sguardi e gesti rivela uno studio molto ben «digerito» della Scuola d’Atene di Raffaello, nel particolare dell’affresco, a destra, dove sono protagonisti Euclide, Tolomeo e Raffaello stesso con un autoritratto. La composizione di Pagodin è ovviamente molto diversa, ma la sua struttura è impostata su quelle basi classiche, così solide da trasparire ancora in filigrana.

Anche Alexandr Moravov si ricorda di Raffaello quando dipinge il suo «Stalin parla nella fabbrica Dinamo» e mette il dittatore nella stessa posa escogitata dall’urbinate per l’apostolo Paolo nel cartone per l’arazzo con «La predica di San Paolo».

Sorprendente? Niente affatto, per i pittori è normale studiarsi e citarsi: l’hanno fatto tutti, persino i più grandi come Caravaggio che nella Vocazione di san Matteo ha copiato in maniera letterale il gesto di Dio nel riquadro con la Creazione di Adamo nella Sistina di Michelangelo. È il gesto dell’indigitazione, fra i più antichi della storia dell’arte e del teatro, raccomandato da Leon Battista Alberti nel suo trattato Della Pittura del 1435: «E piacemi sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere».

Il gesto della mano, o dell’indice che dirige l’attenzione verso qualcosa di preciso, come quello della Madonna nella Trinità di Masaccio o dell’Angelo nella Vergine delle rocce di Leonardo, è uno dei più usati dal Realismo socialista. In questo contesto tendiamo a sottovalutarlo come un gesto retorico, dettato dalla propaganda del regime, ma la verità è che il suo uso risale alla storia dell’arte più nobile. Lo stesso si può dire per le tante braccia tese enfaticamente in avanti che hanno illustri predecessori nella «Zattera della Medusa» di Géricault, una specie di campionario per questo tipo di gesto che tutti hanno sempre ammirato senza tacciarlo di grondare retorica.

E ancora, la grande «Donna controllore» dipinta da Aleksandr Samochvalov nel 1928 che vediamo in mostra è impostata come certe Madonne in trono bizantine realizzate a mosaico, per esempio quella in sant’Apollinare Nuovo. Allo stesso modo è fin troppo facile riconoscere la fissità ieratica e la schematica frontalità dei santi delle icone russe negli uomini messi in fila da Kazimir Malevic nella tela «Sportivi». Abbandonato il Suprematismo e la tabula rasa del «Quadrato nero», tornato alla pittura dopo avervi rinunciato, Malevic creò il Supranaturalismo per indicare l’unione di Suprematismo e Naturalismo, cioè la fusione del principio geometrico e astratto con quello figurativo fino a spingersi, nelle ultime opere, all’ispirazione diretta alla pittura rinascimentale italiana.

E così nell’«Autoritratto» del 1933 il pittore si dipinge, persino negli abiti, come Mantegna aveva affrescato il cardinale Francesco Gonzaga nella camera degli sposi del Palazzo Ducale di Mantova. È vero che Malevic fu incarcerato e ostracizzato dai sostenitori del Realismo socialista, ma non possiamo non far rientrare la sua ultima maniera nella sequenza dei molteplici ritorni all’ordine di quell’epoca.

Ce n’è abbastanza perché anche il Realismo socialista possa finalmente trovare il suo legittimo posto nella storia dell’arte come uno stile a tutti gli effetti e non un semplice linguaggio di propaganda.

11 Ott

Aleksandr Rodčenko. Mostra a Roma

Ultimo aggiornamento Martedì 11 Ottobre 2011 08:36 Scritto da Palazzo delle Esposizioni

Mostra organizzata da Moskow House of Photography Museum. 

A cura di Olga Sviblova. 11 ottobre 2011 – 8 gennaio 2012. Roma, Palazzo delle Esposizioni


L’Avanguardia russa del XX secolo rappresenta un fenomeno unico non solo nell’ambito della cultura russa, ma in quello della cultura universale. La straordinaria energia creativa prodotta dagli artisti di quella formidabile stagione rappresenta ancora fonte di nutrimento per la cultura artistica d’oggi. Aleksandr Rodčenko (1891-1956) è stato senza dubbio uno dei principali generatori di questa stagione creativa e intellettuale, rispecchiandone perfettamente lo spirito e l’aura mitica. Pittura, design, teatro, cinema, grafica e fotografia, sono gli ambiti disciplinari in cui il portentoso talento di questa affascinante figura d’artista si è cimentato, aprendo nuovi percorsi creativi per lo sviluppo successivo di ciascuno di essi. I primi anni Venti, in Russia, rappresentarono un periodo di transizione, in cui sperimentazione artistica e sociale coincisero. Fu allora, esattamente nel 1924, che Rodčenko concentrò la sua principale attenzione sulla fotografia, col risultato di produrre un vigoroso cambiamento nel concetto stesso di quel mezzo espressivo. Da mero strumento di registrazione della realtà, la fotografia divenne un mezzo per la rappresentazione dinamica di costruzioni intellettuali. Rodčenko introdusse in fotografia i principi dell’ideologia costruttivista, sviluppando metodiche e strumenti per la sua applicazione. Il “Metodo Rodčenko”, che comprendeva il ricorso a composizioni diagonali, sfocati progressivi, inversioni orientative, si trasformò col tempo in un repertorio di “figure retoriche” a disposizione di quegli artisti che, attraverso l’adesione al linguaggio costruttivista, credevano nella possibilità di una trasformazione migliorativa del mondo e della civiltà. Negli anni ’30, soprattutto verso la fine del decennio, esasperato dalle critiche e dalla persecuzione del regime sovietico, Rodčenko decise di ridiscutere le forme più radicali del suo pensiero creativo e si orientò ad un’adesione progressiva verso i principi estetici del Realismo Socialista, senza tuttavia mai rinunciare ad un’interpretazione originale e creativa degli stessi. Grazie alla tenace salvaguardia degli archivi famigliari, l’immenso patrimonio d’immagini di Rodčenko è confluito nel primo museo russo dedicato alla fotografia, la House of Photography of Moscow, che insieme ai famigliari e ai maggiori specialisti di questo settore ha promosso una lunga e meticolosa campagna di studi di cui questa mostra è il risultato. Curata da Olga Sviblova, direttore della House of Photography of Moscow, la mostra presenterà circa 300 opere tra fotografie originali, fotomontaggi e stampe vintage.

11 Ott

Al Palaexpò di Roma Rodcenko e i realismi socialisti

Scritto da il manifesto

L’arte russa – ma meglio sarebbe dire sovietica – del ventesimo secolo è da oggi, e fino all’8 gennaio, protagonista al Palazzo delle Esposizioni di Roma con due mostre diverse e, per certi versi, complementari. Da un lato le audaci sperimentazioni di Aleksandr Rodcenko, artista che non è un luogo comune definire poliedrico – fotografo, pittore, cineasta, costantemente impegnato a scoprire nuovi linguaggi -, dall’altro le grandi tele corali dei «Realismi socialisti» (al plurale, perché molte furono le anime all’interno di quello che a lungo è apparso soprattutto all’esterno come un immobile monolite). Il percorso di questa seconda esposizione si snoda dunque tra modernità e ritorno all’ordine, tra una ricerca espressiva indefessa e una pittura magniloquente e spettacolare – una pittura che, conclusosi il periodo delle avanguardie, si fa con il passare degli anni, mentre ideologia e propaganda prendono il sopravvento, sempre più ricercata e complessa, con veri e propri virtuosismi nel disegno, nella composizione e nel colore. Quanto alla mostra di Rodcenko, propone, accanto agli scatti più celebri, molte fotografie inedite, concesse in prestito dalla famiglia dell’artista. «La sua – ha detto la curatrice Olga Sviblova – era un’arte visionaria, l’arte di un uomo che, mettendo via il punto di vista comune, sapeva guardare il mondo con gli occhi spalancati».