11 Ott

Kandinsky Nell’anima russa

11Ott2012

Scritto da Elena Pontiggia, Corriere della Sera

Una mostra a Pisa. I sogni di un ribelle prima dell’esilio La nascita dell’astrattismo nei dipinti che riflettono la cultura della sua terra. Nell’armonia cromatica il senso di una ricerca spirituale
A l di là della soglia — che dalla luminescenza solare dei lungarni pisani ci introduce in un atipico corridoio di luci artificiali e ombre — c’è un mondo antico ed esoterico, simbolico e folcloristico. Filatoi contadini, giocattoli di legno, vestiti tradizionali, ataviche novelle con rappresentazioni grafiche, personaggi mitici. E colori, con quelle tonalità così intense da inebriare il visitatore incantato e smarrito per questo salto quantico verso una Russia inattesa.
È la rappresentazione allegorica di quel plancton culturale del quale Wassily Kandinsky si cibò elaborando e trasmutando l’ormai insostenibile leggerezza della cultura europea (che aveva ammaliato e permeato la Grande Madre Russia e, dopo l’invasione napoleonica, aveva iniziato ad appassire) per guardare all’io individuale e all’io sociale, nascosti, rimossi, cancellati, sbiaditi forse come colori amorfi.
È lo stesso cibo che assaggia il visitatore, se pur in un frammento dell’anima piccolo e fugace ma così intenso da restare indelebile, immergendosi nella straordinaria e unica mostra sul padre dell’astrattismo che si inaugura da sabato sino al 3 febbraio del 2013 a Palazzo Blu di Pisa.
È un evento perché per la prima volta in Italia si svela il Kandinsky del periodo russo (1901-1921) e lo si mette a confronto con l’avanguardia del suo tempo, quella del suo Paese natale e quella della Germania, dove Wassily fuggì perseguitato dal regime sovietico. Così le opere di Alexej Jawlensky, Marianne Werefkin e Gabriele Munter (solo per citare alcuni nomi) si intersecano in questo cammino dell’arte, simbolica prima e astratta dopo, di un genio trafitto dal demone dell’arte fin da bambino ma rapito completamente, da avvocato, durante quel viaggio fondamentale, nella regione della Vologda, in Siberia, tra le izbe, le case rurali russe, decorate e colorate e i paesaggi, tanto da aver la sensazione, come scriveva entusiasta e commosso, di «vivere dentro un quadro».
Ed è proprio questa sensazione di realtà virtuale che si percepisce nel corridoio che ci introduce alle tredici sale della mostra in un percorso artistico (e anche un po’ metafisico) alla scoperta di un pittore che da un simbolismo, se pur già diverso da quello dei suoi contemporanei, si proietta verso l’astrattismo di cui è l’artefice. Sono 150 le opere esposte a Palazzo Blu, una cinquantina di Kandinsky e le altre di contemporanei (russi e tedeschi), ma ci sono anche dipinti di Arnold Shöenberg (tra i quali un magico autoritratto), amico di Wassily, il genio austriaco inventore della musica dodecafonica. Che anch’essa, probabilmente, può essere in parte paragonata all’astrattismo di Kandinsky, una frattura epistemologica nell’arte del ‘900.
In una sala, accanto a «Macchia nera», il dipinto del 1912 con il quale l’artista abbandona ormai ogni riferimento figurativo, si sfiorano strumenti sciamanici tra i quali un tamburo, riprodotto (la macchia) nello stesso capolavoro. E sembra quasi di sentirlo vibrare, questo tamtam rituale, insieme a un’orchestra impossibile, che diffonde le cascate di note (e colori) della Sagra della Primavera di Igor Stravinskij.
Si cammina tra le sale che ripropongono i primi dipinti di Kandinsky, in quell’atmosfera simbolista del periodo di Murnau. Si scivola, senza accorgersene, incontro alle grandi tele dell’avanguardia russa e occidentale, intorno al Der Blaue Reiter, e i maggiori protagonisti della sperimentazione russa, da Michail Larionov alla Goncharova. E infine ecco i capolavori, prima della sua fuga dal regime sovietico, quando accetterà da Walter Gropius l’insegnamento al Bauhaus.
Nella sala del drago, se così possiamo chiamarla, l’emozione è al culmine. Ci sono le iconografie di San Giorgio nell’eterna lotta contro il mostro. E c’è la magia di un capolavoro di Wassily: «San Giorgio» (1911). Così, mettendo a confronto icone e dipinto, tradizione e astrattismo, si percepisce quel processo di decostruzione della realtà.
Poco più avanti, ecco la «sala delle barche»; e anche qui un dipinto di un pittore simbolista con le vele sul fiume serve a entrare in «Improvvisazione» (1910) e nell’«Improvvisazione» del 1917 con le «stesse» barche, gli uomini che remano, l’acqua, il cielo.
«È stata una sfida difficile quella di spiegare forse l’artista più concettoso nel Novecento», spiega Claudia Beltramo Ceppi, co-curatrice della mostra insieme Eughenia Petrova, direttrice del museo russo di San Pietroburgo.
Ma perché proprio Kandinsky? «Ci ha affascinato proporre questo periodo particolare della sua vita che segna la definitiva e totale immersione nella pittura — risponde Cosimo Bracci Torsi, presidente della Fondazione Palazzo Blu —. Inoltre, dopo il ciclo dedicato al Mediterraneo con mostre di grandissimo successo su Chagall, Mirò e Picasso, pensiamo a una serie di mostre dedicate all’astrazione».

   

11 Ott

Il pittore e le forme dei teosofi

11Ott2012

Scritto da Gregorio Botta, la Repubblica

Le influenze del circolo blavatskiano sulla rivoluzione astratta
C’è un errore all’origine dell’arte astratta, secondo la storia (o la leggenda?) che lo stesso Kandinsky ha raccontato: un giorno, mentre stava dipingendo, lasciò lo studio per una passeggiata. Al suo rientro, guardò stupito la tela sul cavalletto: non la riconosceva più, ma fu sedotto dalla sua forza e dalla sua potenza. Poi capì: il suo quadro era stato rovesciato dalla donna di servizio venuta a fare le pulizie. Quell’inversione fece compiere all’arte del Novecento l’ultimo passo che ancora mancava: liberare completamente il colore e la forma dall’obbligo di descrivere anche lontanamente una realtà visibile.
Probabilmente Kandinsky sarebbe arrivato lo stesso a varcare la soglia dell’astrazione. Il salto era nell’aria: e molti artisti percepivano il vento del cambiamento prossimo venturo. Un ruolo, nella rivoluzione estetica dei primi del secolo, l’ha certamente avuto la Società Teosofica di Madame Blavatsky. È noto che tutti gli artisti che hanno avuto a che fare con l’astrazione, Malevic, Mondrian, Kandinsky entrarono in contatto con le sue teorie e con quelle dell’eretico Rudolf Steiner, e ne furono in qualche modo contagiati. (Non Paul Klee, che invece nei suoi diari esprime una certa diffidenza per il movimento). Il titolo del manifesto di Kandinsky Lo Spirituale nell’arte è una chiara testimonianza di quelle influenze. Ma è invece meno conosciuta una strana coincidenza: quella di un piccolo e curioso libretto pubblicato dal circolo blavatskiano qualche anno prima delle Improvvisazioni
astratte. Si intitolava Le Forme-Pensiero, e gli autori erano Charles Webster Leadbeater e Annie Besant: spiegavano come pensieri e sentimenti fossero energie che assumevano nello spazio pattern e colori precisi: peccato che solo i chiaroveggenti fossero in grado di vederle. Ne disegnarono il catalogo. Qualche esempio? Un triangolo acutissimo rosso è un segno d’ira, un ovale rosato un pensiero d’amore, un sole (scontato, no?) è amore irradiante, un cerchio circondato da un alone azzurro è il sembiante di un pensiero d’aiuto, mentre una nuvola con una coda di ami uncinati rappresenta l’avidità. E via così. Anche la gamma dei colori è stata interpretata: il blu lapislazzuli significa “alta spiritualità”, il verde smeraldo simpatia, il giallo ocra un “forte intelletto”, il grigio scuro, naturalmente, depressione, il verde marcio inganno.
Tutto questo può fare anche sorridere, le associazioni tra forme e sentimenti sembrano fin troppo semplici e infantili. Ma i chiaroveggenti andarono a “vedere” – se così si può dire – le forme prodotte dall’esecuzione di musiche di Mendelssohn, Gounod e Wagner. E qui la somiglianza con le opere che più tardi avrebbe dipinto Kandinsky è impressionante. Linee guizzanti, nuvole di colore accesi, verdi intensi e rossi squillanti, e nessun riferimento alla realtà.
Il maestro russo scriveva che le sue opere non nascevano dall’arbitrio. “Tutto ciò che è necessario è nascosto. Ciò che è nascosto è alla base dell’opera, dell’opera viva”. E per questo sentì il bisogno di decifrare il codice delle forme che usava. In Punto, linea, superficie l’artista creò il catalogo che spiegava il movimento, il calore, l’effetto, in una parola il senso di linee rette e curve, di triangoli e cerchi, e dei colori. Un vero e proprio dizionario delle forme astratte: simile, in fondo, a quello dei teosofi. Sarebbe bello sapere se la sua biblioteca ospitò anche quel libricino.

11 Ott

Wassily Kandinsky. Inventare l’astrazione per dare voce all’anima

11Ott2012

Scritto da Claudio Strinati, la Repubblica

Le radici visuali e le componenti spirituali dell’opera del maestro russo raccontate in una mostra allestita a Palazzo Blu di Pisa
Di Wassily Kandinsky sono chiari molti aspetti ma la mostra che si tiene ora a Pisa permette di verificare in concreto l’attendibilità di quanto sembrerebbe ormai entrato nella coscienza comune di coloro che sono attenti alle cose dell’arte. Kandinsky da un lato fu un russo completamente calato all’interno del clima culturale e spirituale diffuso nella sua terra verso la fine dell’Ottocento (era nato nel 1866 e raggiunse la prima maturazione nel corso del nono decennio) e dall’altro è subito coinvolto con l’ambiente tedesco che lo indirizza verso il culto del Simbolismo e dello Jugendstil, spingendolo ad approfondire la componente spirituale dell’arte sottratta a un confronto diretto con il peso della realtà ma all’opposto orientata sulla scandaglio del profondo, della memoria, dell’introspezione.
Questa sorta di doppia radice, russa e tedesca, sarà determinante per tutta la parabola del grande artista destinato a restare sempre un po’ apolide, persino mal sopportato nella sua stessa patria. La mostra, curata da Eugenia Petrova, direttrice aggiunta del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo in collaborazione con Claudia Beltramo Ceppi raccoglie una cinquantina di opere provenienti da San Pietroburgo e da altri musei russi e europei, le affianca quelle dei compagni di strada tedeschi (da Gabriele Munter a Alexej Jawlensky, da Marianne Werefkin a Arnold Schönberg), e apre un orizzonte nuovo sulle possibili interpretazioni della questione decisiva dell’arte moderna: l’astrazione.
Kandinsky può esserne considerato il fondatore ma forse non il padre, perché l’astrazione non fu mai per lui un fine dottrinalmente perentorio, ma un metodo per esplorare territori sconosciuti dell’arte, presenti però alla coscienza umana fin dalle origini.
Quando Kandinsky scrisse Lo Spirituale nell’Arte questo punto era in effetti già latente. Ma l’esatta comprensione del suo pensiero stentò a emergere, anzi soltanto adesso la ricostruzione della storia dell’arte di quell’epoca si sta liberando da inveterati pregiudizi. La genesi de Lo Spirituale nell’Arte è
emblematica. Scrisse il testo in tedesco nel 1909 sotto l’urgenza di dare una sistemazione teorica a quel che stava facendo tra mille contraddizioni e ripensamenti. Poi l’anno dopo lo riscrisse in russo e già questo solo fatto la dice lunga sul suo animo tormentato perché la lingua russa di Kandinsky, come ci viene ben spiegato nel catalogo, era già di per sé una lingua scritta in modo difficile e altezzoso.
In veste di scrittore il maestro si espresse nella sua lingua madre in modo sempre forbito e sovraccarico di una terminologia ad alta densità filosofica e teosofica. Era una lingua destinata a una cerchia di iniziati anche se pretendeva di lanciare un messaggio generoso e ardente a tutta l’umanità, mentre la stesura tedesca accentuava l’argomentazione tecnica. Il libro venne completato e uscì tra il 1911 e il 1912. Kandinsky vi parla, con enfasi, dell’avvento di un’epoca di eletta spiritualità e del principio della necessità interiore che l’artista deve assecondare e tradurre nel concreto dell’opera realizzata. La parola chiave è “anima”.
È l’anima che si deve vedere nell’opera, ma la rappresentazione dell’anima è di necessità astratta perché la verità della dimensione spirituale non ammette figura ma pretende “forma”. In questa aporia misteriosa sembra risiedere l’esigenza perentoria del cambiamento in Kandinsky.
Ma egli in realtà restava libero dai suoi stessi principi senza averne mai fatto una sorta di dogma. Quante sollecitazioni aveva dovuto coordinare lungo il cammino per giungere alla conclusione di potersi presentare come teorico, docente, educatore del popolo, poeta segreto.
All’inizio degli anni Ottanta, giovanissimo, aveva viaggiato per la Russia settentrionale ed era rimasto incantato da questo mondo che sembrava vivere ancora nella dimensione della favola, nell’izba contadina gremita di oggetti, sfavillante di colori, calda e accogliente come un grembo materno. Così racconta il suo ingresso nell’izba di Vologda: «Mi fermai sulla soglia, mi sembrava di entrare nel colore. Avanzai all’interno di un quadro». Quest’esperienza fu fondativa per lui: per tutta la vita cercò la potenza del colore e della forma. Ed è bello che la mostra di Pisa dedichi una sezione alle radici visive dell’opera del maestro russo con oggetti appartenenti alla tradizione dello sciamanesimo raccolti negli stessi anni in cui Kandinsky li appuntava sui suoi taccuini, e da coloratissimi oggetti della tradizione folclorica. Ma ci volle del tempo prima che incontrasse la sua strada. La sua prima formazione era avvenuta in campo giuridico presso la facoltà di Legge di Mosca. Qui aveva lavorato a lungo, appassionandosi alla disciplina e dedicandosi particolarmente a speculazioni teoretiche di filosofia del diritto. Aveva avuto chiara cognizione della dialettica tra diritto romano antico e diritto russo. È proprio nel diritto che aveva individuato una peculiarità russa, rivolta alla cognizione dell’anima. Eccone la interessante chiave interpretativa: il diritto romano insegna a giudicare il fatto, il diritto russo insegna a giudicare l’animo umano, evidenziandone le motivazioni e i relativi comportamenti. Scrive Kandinsky stesso che nel diritto prediligeva la dimensione dell’astrazione concettuale piuttosto che quella della concreta applicazione della norma, anche rispetto alle grandi questioni sociali che di lì a poco avrebbero portato alla rivoluzione e alla vittoria dei principi del materialismo storico.
Ma il materialismo storico era proprio all’opposto di quella via dell’anima che l’artista riteneva determinante e esclusiva per attingere la verità dell’arte. Credeva non a Marx ma al mistico duecentesco Gioacchino da Fiore che aveva profetizzato (e anche Dante lo seguì) i tre regni dell’umanità, sotto il dominio del Padre (il tempo della legge), del Figlio (il tempo della redenzione), dello Spirito Santo (il tempo della rivelazione).
Nasceva in quel momento la convinzione in Kandinsky che la vera rappresentazione dell’anima umana consistesse nella capacità di fissare in immagine quella “risonanza interiore” che genera il suono da un lato (e si estrinseca nella musica) e il colore dall’altro (e si estrinseca nella pittura) concretizzandosi attraverso la combinazione degli elementi essenziali del sapere, che per antonomasia è quello visivo: il punto, la linea, la superficie. Ecco il racconto figurativo dell’anima. Un’utopia, che non gli impedì di continuare contestualmente a rappresentare le favole antiche della gente della sua terra, vista in una lontananza siderale ma captata in uno spazio che ha perso peso e consistenza, per poi ritrasformarsi nell’altro da sé della pura astrazione.

09 Ott

GUTTUSO LE DUE ANIME DELL’UOMO CHE DIPINSE IL NOVECENTO

9Ott2012

Scritto da FABRIZIO D’AMICO, la Repubblica

Nel centenario della nascita il Complesso del Vittoriano di Roma dedica un’ampia retrospettiva al maestro siciliano.  Cento opere ne rappresentano tutto l’arco creativo


ROMA. «Ho parlato sempre di realismo e di cubismo, sono antiastratto, antidecorativo, antiformalista. Se mai ho avuto vizi di contenuto. Ho sentito di spiegare a me stesso e agli altri in che senso andasse adoperato l’insegnamento dei cubisti (da Cézanne a Picasso, a Braque, a Matisse, a Gris, a Léger) e ho parlato di cubismo come di una necessaria educazione, non soltanto formale, ma educazione che riconducesse all’oggetto, ne agevolasse la identificazione. Se sono caduto in errori di semplicismo è stato sempre in senso realistico (Courbettiano per capirci) mai in senso astrattista»: così scriveva Renato Guttuso a Cesare Brandi nell’aprile del 1947: lo ricorda adesso Fabio Carapezza, che con Enrico Crispolti (e il coordinamento di Alessandro Nicosia) ha curato la grande mostra che al Complesso del Vittoriano celebra il centenario della nascita del pittore siciliano (catalogo Skira). È un momento decisivo, quella primavera del ’47, per la vicenda di Guttuso: che ha, fra i primissimi in Italia, preso atto da tempo del verbo neocubista che dilagherà nel nostro paese all’aprirsi delle frontiere dopo la guerra; che tenta proprio allora di iniziare una sua avventura oltre frontiera: ma che proprio in quei giorni ha visto i giovani di Forma – i “suoi” giovani, per tanti versi: che aveva accolto nella sua casa e nel suo studio, che aveva aiutato a crescere – scavalcarlo in avanti, e dichiararsi “formalisti e marxisti”, in un connubio per lui difficile. Che leggerà, forse perplesso, le parole con le quali Lionello Venturi lo presenterà alla mostra milanese della galleria della Spiga (la prima del Fronte Nuovo delle Arti): «ha potuto così compiere un viaggio di andata e ritorno: dalla natura è salito all’ordine astratto, che è un’altezza con aria rarefatta, e da quell’altezza egli ha potuto vedere la realtà e ritornare alla realtà»; parole che quel bilico fra neocubismo (pur se Venturi lo chiami “ordine astratto”) e intenzione realista sembravano un’altra volta evocare.
Di fronte alla gran pala della Crocifissione, oggi in mostra al Vittoriano, sappiamo d’altronde come il dissidio fra le due vocazioni di Guttuso era già in atto da anni: e in effetti ben prima dell’avvio del quinto decennio del secolo. Esposta (e premiata, fra cento polemiche) al IV Premio Bergamo del ’42, la Crocifissione
tiene assieme tanto: tante memorie diverse – da Cagli a Picasso. E tante intenzioni: in quelle figure angolose e scheggiate, in quel colore dato senza vibrazioni chiaroscurali al suo interno (con una semplificazione “irrealistica” della forma, dunque, che ripensava il nuovo linguaggio di Francia); e all’opposto in quel grido alto di dolore, in quel pianto che sta per divenir rivolta, in quel rosso che batte ovunque lo spazio della rappresentazione, forte come un simbolo. Un grido e un dolore, peraltro, che avevano profondamente segnato la pittura di Guttuso fin dalla sua prima maturità, spesa fra Roma e Milano negli anni Trenta e nella quale s’affollano pensieri e propositi diversi, ancora allacciati – taluni – a Mafai, o memori dei colloqui scambiati a Milano con Birolli (così ad esempio in Gente nello studio, del ’38, qui esposta, e nelle sue nervose, serpentinanti figure abbandonate sul divano; o in certe vedute di Roma e dei suoi tetti infiniti).
Dire una parola agra e spoglia, priva finalmente delle antiche seduzioni novecentesche che l’avevano per un breve momento attratto nei suoi primissimi lavori: di questo va in cerca Guttuso. Ed è al sommo di questo suo modo che viene, presentata al Premio Bergamo del 1940, la Fuga dall’Etna, che gli valse tra l’altro, assieme all’anatema di Ojetti, un significativo riconoscimento di Guido Piovene: «Guttuso è forse l’unico tra gli espositori che abbia un temperamento genuinamente drammatico e tenda a capire e ritrarre la diversità anche sgradevole di corpi, di gesti e di anime». Fra la Fuga dall’Etna e la Crocifissione, in un breve volgere d’anni a cavallo dei due decenni, s’avvia «quel modo tutto proprio di Guttuso di leggere la lezione picassiana in senso espressivo (e persino espressionistico): modo che acquista anche un significato particolare nel panorama delle diverse risposte a Picasso in Italia lungo gli anni Venti e Trenta», ha scritto Crispolti. Un’asprezza che aveva avvistato anche Vittorini, dicendo dell’impegno di Guttuso a spogliare il suo eloquio da ogni facile incanto, a dir secco quanto deve dire, «a dirlo in parole povere».
Un quadro importante e raramente esposto, il Massacro di agnelli del ’47, affrontato al celebre Il merlo – il suo dipinto più “formalista”, davvero a un sol passo dall’astratto – esposto alla Biennale veneziana del ’48 (alla sua prima edizione postbellica, dunque, alla quale Guttuso partecipò con il Fronte Nuovo delle Arti, che aveva contribuito a fondare), segna oggi in mostra l’ultimo momento in cui si danno compresenti le due anime che hanno fecondato assieme l’animo di Guttuso nell’immediato dopoguerra. Seguì il momento forse più difficile del pittore, che si trovò a capo della corrente neo-realista, interpretandone l’intento di dar voce anche con la pittura all’impegno sociale e politico che il Partito Comunista pretendeva dai suoi adepti.
Dalla Pesca del pesce spada, del ’49, alla Zolfara (’53-’55), la mostra documenta questo suo tempo, prima di destinarsi a riguardare la “seconda età” di Guttuso, nella quale s’alternano dipinti intessuti di sensualità (Nuda nello studio, ’59) ad altri che cantano i miti popolari della nuova società (a partire da La spiaggia e da Ragazzi in Vespa), ai numerosi ritratti (fra i quali il bellissimo Ritratto di Mario Schifano, del ’66), sino alle vaste composizioni degli anni Settanta (I funerali di Togliatti, La Vucciria, Caffè Greco) in cui, dietro il colore sempre acceso e quasi urlante, si scopre un Guttuso incline al ricordo, alla memoria degli anni e degli amici di un tempo lontano e, forse, alla malinconia.

 

02 Ott

LA BATTAGLIA CONTRO L’ASTRAZIONE

9Ott2012

Scritto da NELLO AJELLO, la Repubblica

Il pittore, il Pci e i dettami del “realismo socialista”

Un caposcuola e un bersaglio: questo è stato Guttuso per l’arte della sinistra italiana nel dopoguerra. La sua figura era al centro di intensi scontri politico-culturali. Tutto nasceva dal fatto che il Pci, il “suo” Pci, trovava normale adeguarsi, in questo campo, ai suggerimenti teorici provenienti dall’Urss, e ciò implicava un ossequio alla teoria del “realismo socialista”. La direttiva, già diramata nel 1934 dal massimo teorico della materia, Andrej Zdanov, imponeva agli artisti di «operare al servizio del partito». Chi, fra loro, «non è capace di marciare col popolo sarà messo da parte». Così avrebbe ribadito lo stesso Zdanov nel ’46.
Un paese come il nostro – che aveva partecipato ai movimenti del primo Novecento, dalla pittura metafisica al cubismo – aderiva a fatica a una consegna così categorica. Togliatti se ne rendeva conto. Da uomo dell’Ottocento, egli condivideva le direttive del “Paese-guida” in ciò che esse avevano di più ruvidamente conservatore (in un congresso degli scrittori sovietici tenuto a Wroclav nel ’48, si arrivò a dire che la moderna cultura borghese poneva «sul piedestallo gli schizofrenici e i morfinomani, i provocatori e i degenerati»). Il segretario comunista si sforzava così, alla meno peggio, di sottoporre gli artisti a un’obbedienza, sia pure non del tutto ortodossa.
Guttuso apparve dunque l’uomo più adatto a interpretare il progetto. A partire dalla letteratura e dal cinema, la formula del realismo sovietico assumeva da noi le vesti del “neorealismo”. Ma per molti pittori la variante somigliava troppo all’originale, anche perché il segretario del Pci non sempre riusciva a nascondere il proprio consenso allo zdanovismo: in una nota su Rinascita del novembre 1948, egli non si trattenne dal liquidare l’arte moderna dell’Occidente – definita «una raccolta di cose mostruose» – condannando in particolare i suoi esponenti italiani. Di conseguenza gli astrattisti, che avevano aderito sulle prime, insieme ai colleghi di diversa tendenza, a un Fronte nuovo delle arti, diedero vita a un gruppo autonomo, detto “degli Otto”. Erano i pittori Birolli, Corpora, Morlotti, Santomaso,
Turcato, Vedova, e due scultori, Leonardi e Viani. Più tardi Ennio Morlotti avrebbe rimproverato a Guttuso di voler «ficcare in testa a martellate il realismo socialista» ai propri seguaci, che Pietro Consagra giudicava «un’ottusa tresca di sergenti».
Guttuso, in realtà, era molto legato all’ultima grande pittura italiana – da de Chirico a Morandi, da Carrà a Boccioni – e lo spagnolo Pablo Picasso, assai sgradito agli “zdanoviani”, rappresentava per lui un mito al quale rifarsi: non a caso c’era chi lo descriveva intento a produrre «picassate alla siciliana».
Una felice stagione guttusiana era stata in passato il tardo periodo fascista, nel quale taluni suoi quadri, dalla
Fuga dall’Etna alla Crocifissione, simboleggiavano un’acre dissidenza. Poco più tardi, la guerra partigiana lo trovò fra i suoi fervidi interpreti: si ricordi il bel ciclo intitolato Gott mit uns, una netta denunzia della brutalità nazista.
Bastavano simili precedenti ad accreditargli la posizione di “leader” della nuova pittura “di sinistra”? Di fatto Guttuso prese a effigiare nelle sue tele degli anni Cinquanta operai, contadini, solfatari, braccianti e mondine, ed era difficile decidere se lo facesse per intima predilezione o per adeguarsi agli umori del partito. I suoi denigratori optavano, ovviamente, per la seconda ipotesi.
Intanto, lui “faceva scuola”. E a chi, come trent’anni fa Moravia sull’Espresso, gli rimproverava di avere «allievi non alla sua altezza» reagiva citando le risposte noncuranti rivolte da Picasso a chi gli imputava di aver generato tanti “picassini”. E, a proposito del sapore “di partito” che emanavano certe sue opere, tagliava corto: «Se ho fatto brutti quadri, ho voluto farli io. Ma ne ho fatti anche di belli. Comunque, Togliatti non mi ha ordinato niente».
I tempi divennero maturi per il tramonto dell’“impegno” in pittura. Di suo, Guttuso era poi un uomo naturalmente sensibile alla popolarità. Nel 1981, avendo la rivista Capital pubblicato una sua intervista, apparve sull’Unitàla lettera d’un lettore scandalizzato: perché il Maestro – si chiedeva il mittente – s’è confidato con un periodico che è «espressione della nostra controparte politica»?. La reazione del Maestro fu di un’ironia sferzante: «Mettete davanti a quella rivista un “Das” e tutto va posto». “Das Kapital”, come il capolavoro di Marx.