17 Apr

L’enigma e il fascino dell’isola, il chiodo fisso di Adolf Hitler

Scritto da Gianni Caverni – l’Unità Firenze

 Quadri di Arnold Böcklin, Giorgio de Chirico e Antonio Nunziante in esposizione fino al 19 giugno al Palazzo comunale di Fiesole 
Quattro quadri di Arnold Böcklin, piuttosto malridotti, nemmeno del tutto terminati, eppure pieni di un fascino straordinario. “Isole del pensiero” è il titolo della mostra curata da Giovanni Faccenda che, fino al 19 giugno, mette insieme nella sala del Basolato del palazzo comunale di Fiesole, il maestro di Basilea, Giorgio de Chirico che tanto gli ha dovuto, e Antonio Nunziante, pittore contemporaneo. Anche il titolo della mostra evoca il “quadro dei quadri”, quell’Isola dei morti che tanto fascino ha esercitato su schiere di artisti. La prima che fece fu nel 1880, poi altre quattro ne seguirono secondo il consiglio del mercante berlinese che colse al volo la straordinarietà dell’opera. Un fascino che è stato capace di coinvolgere profondamente personaggi come Freud, Hitler, Lenin, Dalì, Strindberg, Druié e D’Annunzio. Hitler, che ne possedeva una, volle che tutto ciò che di Böcklin era rimasto nella villa Bellagio a San Domenico di Fiesole fosse portato via, si salvarono solo quei 4 quadri e qualche disegno, probabilmente nascosti in qualche modo. Il “Pan fra i bambini in girotondo” è palesemente non finito, era quello che fu trovato ancora sul cavalletto quando l’artista morì, nel 1901. Dei 5 de Chirico in mostra 4 sono del periodo “barocco” che risale fra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Potrebbe però valere una visita anche solo la “Passeggiata, il tempio di Apollo a Delfi” che l’artista greco di nascita, ma italiano di origine, dipinse fra il 1909 e il 1910 probabilmente quando abitava a Firenze. Si tratta del quadro che registra la fase di preannuncio dei temi esplicitamente metafisici e il paesaggio nel quale si svolge la scena è probabilmente ispirato ad un luogo reale della zona di Fiesole, naturalmente letto secondo la grammatica di Böcklin.
L’isola, o meglio una sua interpretazione, è quasi costantemente presente nei quadri di Antonio Nunziante che segue la via a suo tempo aperta dall’artista svizzero e percorsa poi da tutti gli artisti classificabili, per necessità di sintesi, come surrealisti. L’isola di Nunziante è “più positiva”, come lui stesso la definisce. E’ comunque un enigma per dirla col de Chirico metafisico, si colloca all’esterno ma anche all’interno di stanze deserte il cui pavimento in legno è allagato dal torrente che scorre fra i cipressi. O, in questo citando non solo de Chirico ma anche suo fratello Savinio, in interni che si fanno esterni attraverso il soffitto mancante.
12 Apr

McCracken, minimalista visionario

Scritto da STEFANO BUCCI – CORRIERE DELLA SERA

 Quando nel 1968 arrivò al cinema 2001: Odissea nello spazio di Kubrick in molti pensarono che il monolito nero che compariva (inquietante) sullo schermo fosse una sua opera: «No, ma in fondo lo spirito è lo stesso» . Andrea Bellini, direttore del museo del Castello di Rivoli, ricorda così John McCracken, l’artista considerato uno dei padri fondatori del minimalismo americano, scomparso venerdì notte a Manhattan a settantasei anni (era nato a Berkeley, California, il 9 dicembre 1934). Proprio a McCracken il museo di Rivoli dedica fino al 19 giugno la prima retrospettiva mondiale («Prima ancora che negli Usa» ) alla cui realizzazione l’artista ha collaborato attivamente e che comprende anche gli ultimi suoi lavori, Fair del 2008 e Wonder del 2010. «Noi stessi— dice Bellini— siamo sorpresi del successo della mostra, ma forse bisognava in qualche modo aspettarselo perché le sue forme geometriche sono ormai parte dell’immaginario collettivo» . Eppure McCracken è sempre stato un genio incompreso o almeno sottovalutato dalla critica, che solo adesso sembra volerlo scoprire (con gli obituaries del «New York Times» e del «Los Angeles Times» ). Anche se le sue sculture, le sue installazioni dalle forme geometriche (Naxos, Il Mago della pioggia), i suoi pennarelli su carta (Mandala) fin da subito si erano caratterizzati per quella loro riuscita miscela di visionarietà e minimalismo: un universo di resine, acciaio e colori vivacissimi (giallo, blu, rosa oltre a tanto nero) che, appunto, non avrebbe sfigurato in un film di fantascienza.
12 Apr

Quel quadro misterioso amatissimo da Hitler che Lenin teneva sul letto

Scritto da FRANCESCA MARANI – Venerdì de la Repubblica

Una tela che sedusse molti, l’isola dei morti di Böcklin, è esposta, accanto a lavori di De Chirico e Nunziante, per la prima volta in Italia. Eppure si ispirerebbe al castello aragonese di Ischia

«Aqualsiasi cifra ». Era tanta l’ossessione per Arnold Böcklin che Hitler non aveva posto limiti all’intermediario. E così, a un’asta del 1936, riuscì ad aggiudicarsi L’isola dei morti, il quadro più celebre del pittore svizzero. A quale cifra non si è mai saputo, «a quei tempi non c’erano cataloghi né bollettini di aggiudicazione. Di sicuro oggi possiamo azzardare una quotazione di oltre centomilioni di euro» spiega Giovanni Faccenda, curatore della mostra Isole del pensiero. Böcklin, de Chirico, Nunziante, a Fiesole dal 16 aprile al 19 giugno (www.museidifiesole.it).

Pezzo forte dell’esposizione, per la prima volta in Italia, è proprio quel dipinto, dal quale Hitler non si separò mai. Rimane una foto del dittatore nel suo studio, con il ministro sovietico Molotov e il tedesco Ribbentrop, durante gli accordi per il patto di non aggressione del 1939: sullo sfondo, L’isola dei morti.

Hitler volle il quadro con sé, fino alla fine, nel bunker di Berlino. Un generale dell’Armata Rossa lo portò a Mosca, e si credette fosse andato perso, fino a quando, nel 1980, la Russia lo offrì alla Nationalgalerie di Berlino.

In mostra a Fiesole, dove Böcklin morì centodieci anni fa, altri suoi quattro dipinti, accanto a cinque di Giorgio de Chirico e a venti di Antonio Nunziante. «In entrambi echeggia fortissima la lezione di Böcklin» spiega il curatore: «possiamo definirli, come il maestro svizzero, “pittori enigmisti”, portati a rappresentare ciò che non è visibile ma è percepibile ». Un itinerario metafisico iniziato da Böcklin, percorso prima da De Chirico e oggi da Nunziante.

«Nessun pittore, come quest’ultimo, ha dipinto per affinità di spirito in modo così vicino a Böcklin» dice lo studioso Hans Holenweg, che in occasione della mostra rivelerà, dopo tante ipotesi, a quale luogo si è ispirato Böcklin: al castello aragonese sull’isolotto di fronte a Ischia.

Hitler fu l’estimatore più famoso dell’atmosfera onirica e misteriosa dell’Isola dei morti, di quella figura bianca che su una barca porta una bara verso un grande scoglio roccioso, ma la suggestione suscitata dal quadro (Böcklin fu spinto a farne cinque versioni, dal 1880 al 1886, quella del dittatore era la terza) influenzò artisti, scrittori, musicisti e poeti. Da Munch a Magritte, da Max Ernst a Salvador Dalí. Strindberg ne fece la scenografia della Sonata degli spettri.

Rachmaninov compose un poema sinfonico con lo stesso titolo del dipinto, che ispirò anche una poesia di Majakovskij. In tempi più recenti, il quadro è «apparso» in Nabokov e in Milo Manara.

Avere in casa un’Isola dei morti è stato a lungo un must, come si direbbe oggi. A fine Ottocento, una sua riproduzione era considerata un regalo di nozze di alta classe.

D’Annunzio ne possedeva una, Freud ne teneva nel suo studio ben ventidue. E anche Lenin ne aveva una, proprio sul letto. Più trasversale di così.

07 Apr

La passione del collezionismo

Scritto da Severino Colombo – Corriere della Sera

L’Italia delle gallerie private tra giovani talenti e maestri

Da Modica (Laveronica) a Trento (Raffaelli), da Venezia (Contini) a Torino (Mazzoleni). È l’Italia unita dall’arte— e dalle gallerie — che per quattro giorni ha in Milano la sua capitale. Perché «da qui passa il 60-70 per cento del mercato dell’arte italiano» ; perché qui «nelle accademie si formano gli artisti di domani» ; perché qui «operano le gallerie più importanti» . Così Giacinto Di Pietrantonio, docente a Brera e curatore della sezione contemporanea di MiArt, fiera internazionale di arte moderna e contemporanea che si svolge dall’ 8 all’ 11 aprile nel padiglione 3 di FieraMilanoCity. Proprio il ritorno o in alcuni casi il debutto a MiArt di alcune rinomate gallerie milanesi è una delle novità della sedicesima edizione: «Monica De Cardenas e Studio Guenzani, che aveva partecipato una volta sola — elenca il curatore —. Poi ci sono nomi di peso come Massimo De Carlo, Suzy Shammah, Kaufmann Repetto in grado di attrarre i collezionisti stranieri» . Un’altra novità di MiArt è la volontà di selezionare — ancor di più — le gallerie. Erano duecento nel 2009, quest’anno sono cento, di cui il 90 per cento italiane. Una scelta che punta a mettere in evidenza l’autorevolezza della galleria e l’eccellenza o l’originalità degli artisti (quasi seicento) presentati. Se si va sul moderno — la sezione è curata da Donatella Volonté — ci sono nomi di sicuro appeal quali Picasso, Klee, Dalì, Prampolini, Max Ernst. Mentre sul contemporaneo si toccano le esperienze, ormai storicizzate, dell’Arte Povera e della Transavanguardia, i linguaggi della video-art e della performance, e si arriva all’arte del presente che riflette elementi di una geografia allargata, insieme «località e globalità delle culture» . A questo riguardo nuova è pure l’attenzione di MiArt per giovani gallerie e ad artisti altrettanto giovani, alcuni inediti, che osserva Di Pietrantonio «dimostrano una buona qualità di ricerca e di idee; la differenza rispetto al passato è oggi che non occorre lavorare in una grande città per farsi conoscere» . Da qui la scelta di esporre, in maniera quasi obbligata, le nuove promesse all’occhio dei visitatori collocandole all’ingresso della fiera. Quanto alle quotazioni delle opere presentate la forbice è ampia: un migliaio di euro per chi vuole scommettere investendo su un talento ancora sconosciuto, duecento volte tanto per portarsi a casa l’opera di un artista affermato o già entrato nel libri di storia dell’arte del Novecento. Che poi in fiera si concludano davvero buoni affari lo dice il fatto che nel 2010 i pezzi venduti — certificato d’acquisto alla mano — solo nella sezione moderna hanno toccato la cifra record per MiArt di centoventinove. Non è una novità, ma una gradita consuetudine la serie d’iniziative collaterali a MiArt. Occasioni di dialogo e scambio come le visite guidate, i tour per collezionisti di AXa Art. O gli incontri di MiArtalks, a cura di Peep-Hole (Vincenzo de Bellis e Bruna Roccasalva) che spaziano dalla moda al design, dall’architettura agli spazi museali; tra gli ospiti lo scrittore Andrea G. Pinketts e il fotografo Ferdinando Scianna. Dalla collaborazione con lo Iulm, partner ufficiale, è nato un progetto su misura giovani under 30 (sul sito www. miart. it); pure mirato sui talenti in crescita è anche il Premio Rotary per l’arte contemporanea (quest’anno dedicato alla tecnica del disegno). Infine, con Naba è nato l’evento «100 di 50» (9 aprile ore 20), curato da Di Pietrantonio con Marco Scotini: una maratona di cento performance— proposte dal vivo o con materiali video d’archivio— per raccontare, conclude l’esperto, «il campo espressivo in cui l’arte si è rinnovata di più negli ultimi cinquant’anni» .

07 Apr

«Io gallerista, padre a tempo pieno degli artisti»

Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

Giò Marconi, a Milano manca un progetto culturale. Ognuno pensa soltanto per sé

Figlio d’arte, Giò Marconi, 46 anni, ha preso in consegna l’attività del padre Giorgio trasformandola in una delle gallerie italiane che più godono di prestigio anche all’estero. Per Miart è membro del comitato consultivo che ha selezionato gli espositori. Ogni anno Miart annuncia di essersi rinnovata, dichiarazione che dice quanto sia difficile posizionarsi? «Le fiere continuano ad aumentare, ormai ne organizzano anche a Dubai o Hong Kong e i galleristi fanno fatica a decidere dove andare. Miart finora si è comportata come un elastico, con anni buoni alternati ad altri meno felici. La nuova idea è puntare su un numero ridotto di espositori, non più di cento, ma i migliori italiani. Cominciamo a fare una vetrina della nostra eccellenza e questa è già una forte connotazione» . Bisogna dare per persi i mercanti stranieri? «Gagosian ha aperto una galleria a Roma, eppure non fa nessuna fiera in Italia: i collezionisti italiani sono fra i maggiori compratori e vanno molto a comprare anche all’estero così al momento i galleristi stranieri preferiscono esplorare attraverso le fiere mercati nuovi, come il Messico. Poi c’è anche l’handicap che da noi l’Iva è molto alta» . Non sarà che Milano non sa costruire una mitologia di se stessa? A Parigi la Fiac, per esempio, si tiene nella cour carré del Louvre e nel Grand Palais; anche la nuova fiera di Roma ha trovato luoghi affascinanti come l’ex mattatoio al Testaccio. «Certo sarebbe molto più bello fare Miart alla Triennale, con il bar nel giardino e la fontana di De Chirico, ma questo dipende dal management che gestisce la fiera, se vuole o no pensare in grande. Uno come Roberto Casiraghi, per esempio, si è inventato Artissima di Torino dal nulla e ora ha lanciato Roma con la stessa capacità di progettare idee» . Forse anche voi galleristi siete divisi? «Grazie alla crisi ora ci parliamo di più, ma qui a Milano manca soprattutto la capacità di coordinare pubblico e privato. Ognuno pensa per sé. Abbiamo l’editoria dell’arte, spazi alternativi, il mercato, le gallerie, i soldi, le fondazioni. Ma non abbiamo un museo di arte contemporanea, un direttore che programmi il Pac, insomma una intelligenza che abbia un progetto della città, una visione che la tenga insieme. È un impegno di idee prima ancora che economico» . Ma le fiere servono ancora? «Servono sia le mostre nelle gallerie che le fiere per comunicare con la gente che non ha tempo» . Fra fiere e aste, alle gallerie quale ruolo resta? «Quello di promuovere gli artisti, di aiutarli a realizzare i progetti. Per esempio la mostra che ho prodotto nella mia galleria per Nathalie Djurberg ha poi girato tre musei internazionali e ora torna a Milano perché l’ha comprata la fondazione Prada» . La crisi si è sentita? «Certo, ma a Milano solo una galleria ha chiuso e altre hanno aperto» . Cosa fanno di nuovo gli artisti oggi? «Non usano più un unico media, ma passano dal video alla pittura all’installazione, a volte anche nello stesso lavoro» . Come si cercano i nuovi talenti? «Viaggio molto, vedo tante mostre, parlo con i miei artisti che mi fanno segnalazioni, con i curatori e i colleghi e faccio molte visite agli studi degli artisti. Con loro si instaura sempre una relazione personale: anche i migliori sono spesso insicuri di quello che fanno, hanno bisogno di un supporto. Devi essere un po’ anche il loro fratello o papà» . L’aspetto più bello del suo lavoro? «Quando in galleria si prepara la mostra con l’artista. Quando si vede realizzare il progetto» . E il lato meno piacevole? «La fatica di fare le fiere» . Che cosa serve per diventare gallerista? «L’occhio, la conoscenza dell’arte e degli artisti. Ma soprattutto serve avere un progetto, un’identità personale molto forte» .

01 Apr

Il banchiere che sapeva come amare l´arte

Scritto da FRANCESCA GIULIANI – la repubblica

Così è nato il museo, una delle più importanti istituzioni culturali tedesche. La collezione voluta dall´ex commerciante di spezie ha sempre mantenuto dei tratti di avanguardia C´è la passione di un giovane banchiere commerciante di spezie alle origini della collezione di uno dei più importanti musei tedeschi.

Johann Frederick Städel – di cui l´istituzione di Francoforte porta ancora oggi il nome – ha amato, fino alla fine dei suoi giorni aprire la sua grande, sontuosa casa agli altri, visitatori, viaggiatori, curiosi, per accompagnarli in una passeggiata in cui raccontava senso e vicissitudini dei dipinti che aveva raccolto, con il tempo e con largo dispendio di risorse. Alla sua morte, nel 1816, Städel lascia alla città il suo patrimonio, la collezione, la sua stessa dimora e un milione di fiorini. Sensibile all´arte come nessun altro, così dicono di lui i contemporanei, compie una scelta di puro mecenatismo, in linea con certi principi illuministici ben radicati in una città laica e ricca, prende insomma una decisione che imprime un verso definitivo alle sorti del museo. Lo Städel manterrà sempre dei tratti di “avanguardia” impressi in un tempo in cui erano del tutto inediti. È una storia che, a ripercorrerla, apre lo scenario su una Germania capace di una religione della cultura ma anche di dare valore ai propri artisti oltre che di aprirsi alla ricerca internazionale e contemporanea. Felix Krämer, curatore della mostra romana “Cento capolavori dallo Städel Museum di Francoforte. Impressionismo, Espressionismo, Avanguardia”, ripercorre nel suo saggio in catalogo le tappe decisive della formazione della raccolta del celebre museo che oggi annovera ben 100 mila opere, dal Trecento alla modernità. Primo storico direttore del museo fu Philipp Veit, integralista cattolico convocato a Francoforte da Roma: come deciso da Städel, le scelte nella fondazione venivano prese in assoluta libertà. Per questo vennero designati cinque amministratori, scelti tra la cittadinanza locale e incaricati poi di seguire la politica degli acquisti, incentrando la collezione su lavori di pittura tedesca, olandese, fiamminga com´era nel gusto del tempo. Con la sua scuola, la biblioteca e le collezioni, lo Städel era il cuore della vita culturale di Francoforte ed era il primo centro culturale borghese in Germania tanto che presto fu necessario trasferirlo in un edificio più ampio alle porte della città. È il 1840 quando la direzione passa a Johann David Passavant: grazie a lui comincia la catalogazione scientifica delle opere e la strutturazione sistematica delle opere, prosegue la politica di acquisizione, entrano nel museo i primi contemporanei, come Gustave Courbet. Da allora in avanti, almeno un terzo delle opere del museo proviene da donazioni, a indicare il legame tra i cittadini e l´istituzione-museo. Gli anni difficili fra le due guerre vedono alla guida dello Städel Georg Swarzenki che apre alla Francia (non senza violenti dibattiti in città) acquisendo opere di Renoir, Manet, Monet, Corot… Per accogliere l´arte contemporanea viene istituita una nuova ala del museo che sarà ultimata soltanto dopo la Seconda Guerra mondiale quando, anche in memoria di tanta “arte degenerata” perduta col fascismo, si acquisiscono dipinti come il ritratto di Fernand Olivier di Picasso.