22 Dic

Le incandescenti e fragili utopie dell’arte sovietica

Scritto da Maria Grazia Calandrone – il manifesto

MOSTRE «Realismi socialisti» al Palaexpò di Roma

Dalle sventagliate di luce delle grandi tele di Aleksandr Deineka all’«autismo corale» che segna le opere degli ultimi decenni, avvolte in un crepuscolo malinconico e polveroso Il suolo della Russia – immaginato qui dall’Occidente attraverso il velo d’oro della Letteratura – sta ancora digerendo le immortali nevi di Pasternak, è rotto dalla oscillazione impietosa dell’ombra di Marina Cvetaeva, fatta morta da un maligno isolamento politico – e insieme è tutto verde del sogno di Majakovskij. L’arte è un risultato compresente. In questo caso gli esiti della bellezza sono mossi da idee e da esperienze in contraddizione. Si pone dunque un quesito morale, perché la bellezza delle utopie splende insieme alla bellezza del loro declino.
Proviamo a leggerli storicamente attraverso la parabola simbolica della luce. Lo slancio di eguaglianza della società umana è inciso nel marmo luminoso delle pagine di Majakovskij, «vuotacessi e acquaiolo» che, poco prima del dubbio suicidio, grida «scavalcherò / i volumetti lirici / e come un vivo / parlerò ai vivi», con quel suo verso «pesante, ruvido, tangibile» come un acquedotto romano, che il poeta vuole consegnare fino all’ultimo «a te, / proletario del nostro pianeta».
La stessa vigorosa incandescenza storica è fissata dai quadri di Aleksandr Deineka, che abbiamo finalmente modo di vedere, vivissimi anch’essi, nella mostra sulla grande pittura sovietica dagli anni Venti ai Settanta in corso fino all’8 gennaio al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Pausa pranzo nel Donbass, per esempio: cinque ragazzi ci corrono incontro dall’acqua, sollevando spruzzi di schiuma. Noi, che guardiamo, siamo la loro riva. Alle loro spalle è tirato il rigone orizzontale e nero di un molo sul quale un merci fila sbuffando, probabilmente carico del carbone che in quegli anni era l’oro del Donec. Il pallone, calciato ad angolo verso di noi, serve a sfogare lo slancio muscolare dell’adolescenza, quella loro bellezza nuda e innocente. Sopra tutta la scena vige una fiamma primaria, una luce gettata alle spalle da una fonte invisibile, una luce «sbagliata», poiché il molo, invece, non posa ombra. L’errore ci lascia intendere che la luce provenga da regioni interiori. Come in Majakovskij, l’infiammazione è tessuta nel muscolo del cuore – viva, frontale e bianca – proiettata dalla mente-faro e dal cuore-fiaccola dell’autore direttamente negli occhi di chi la guarda. E noi, pure macchiati dalla consapevolezza dei posteri, veniamo abbagliati dal segnale a mille watt delle nostre utopie, da una luce di nevi marine che ricorda l’iperventilazione lirica della Livorno di Giorgio Caproni: «ventilata in un maggio / di barche».
Eppure, dopo vent’anni, di quelle sventagliate di luce restava un blando lucore crepuscolare, una sorta di lacca polverosa che si depositava su volti sempre più in primo piano: squadrati come maschere o doverosamente sconfitti. Altrimenti, l’abbaglio di una neve scontornava i corpi. Era avvenuta una progressiva cessazione della coralità, anche la Russia si stava ammalando di quello che Franco Arminio definisce autismo corale. Il sole era meccanico, stava in cielo per forza d’inerzia e non ruotava più, per trascinare sul suo carro gli uomini, verso la libertà. Tutti i ragazzi avevano gettato le loro ombre bellissime su acque che sarebbero state rabbuiate da un massacro morale e tutto lo splendore adesso era spalmato come una pallida infarinatura sulla propaganda di partito.
Appaiono lente opere «antisociali», intimiste, critiche e addirittura oniriche. In un’opera-simbolo come Il lavoro è finito di Viktor Popkov la città non è più benedetta da un sole produttivo ma informe e fantasmatica, misteriosamente accesa da una visione notturna e l’arte è nel corpo addormentato del pittore, richiamo onirico di un altro mondo.
Il senso di questa opera continua in maniera struggente nel cortometraggio Elegia orientale di Aleksandr Sokurov, dove i ragazzini lanciati da Deineka negli anni Trenta sulla schiuma del Donbass sono diventati i protagonisti di un sogno venuti da un mondo doppiamente alieno: un oriente che rappresenta il regno dei morti. Rispondendo all’intervista elegiaca di Sokurov, i morti non sanno che dire sulla propria felicità, sanno solo che non hanno intenzione di tornare se non in forma d’alberi dai frutti rossi, sanno che non hanno bisogno di noi né di salvezza, forse neppure della nostra memoria. Perché essi non hanno più bisogno di esistere. Adesso sono liberi. Leggeri e privi.
Sokurov ha dovuto spingersi nel semibuio dei morti per tentare di esprimere il mondo (onirico, interiore, inconscio – mischiato di ricordi infantili di cicogne e di volti mai visti, attenti come quelli delle icone) che lo perturba e lo sovrasta con una vocazione etimologica. Ha puntato il suo sguardo sulle icone contemporanee di quei volti, impassibili come il viso di dormiente còlto in treno dallo sguardo pieno di compassione di Antonella Anedda: «Poi ho capito che quel paesaggio era pena, che c’era una spina di pena che quel volto accoglieva senza essere assorbito dalla bellezza, né dalla bellezza e alla bellezza confuso. Al viso, a quella icona di vecchio si affidava il gelido mondo». I volti di Sokurov, emersi dalla penombra, accolgono con la stessa inerzia attiva un paesaggio fatto di ricordi, sogno e futuro. Il sogno fabbricatore di eguaglianza sociale è diventato il gesto metafisico di aprire la mano per lasciar andare, è ora l’invocazione di una oltreumana, ontologica libertà umana. L’arte russa, dopo essersi ripiegata nella solitudine degli sconfitti, si è dilatata: nel dettaglio ha scoperto l’infinità di una vocazione alla luce.
I mondi interni restano però sempre inesprimibili, nonostante la crescente perizia nell’utilizzo del medium. Il tema dell’indicibile, affrontato metaforicamente da Sokurov – e ben prima che lo psicoanalista Wilfred Bion lo formalizzasse nelle definizioni degli universi protoverbali – è espresso con perfetto amore da Tolstoj, il quale venne infine illuminato da una pace evangelica: «In tutto, in quasi tutto ciò che ho scritto mi ha guidato il bisogno di riunire dei pensieri che si concatenavano tra loro per esprimere me stesso; ma ciascuno di quei pensieri, se lo si prende di per sé e lo si esprime in parole, perde il proprio senso e si degrada in un modo terribile; se appunto lo si sottrae a quel concatenarsi con gli altri pensieri. E anche quel concatenarsi, dal canto suo, non è qualcosa che appartenga propriamente all’ambito del pensiero (almeno credo), ma a un ambito diverso, non so quale, ed esprimere immediatamente in parole il fondamento di questo concatenarsi è del tutto impossibile; esprimerlo si può solo in modo mediato: usando le parole per descrivere scene, immagini, situazioni».
Ecco spiegata la insoddisfazione dei grandi intorno alla propria opera. Ecco che Anna Karenina, sentendo una finale «impossibilità di lottare», dice «Signore, perdonami tutto!». Perché nessun essere umano è innocente. Eppure lo siamo tutti, per la nostra invincibile aspirazione alla luce, capace di raggiungere talora vette quali l’«altruismo radicale» di Etty Hillesum, che, dalla mischia di fango e terrore del campo di concentramento, lanciava al mondo libero e al futuro simili parole: «Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra». Questa lauda non è fuori luogo: la gratitudine è sempre e ovunque al suo posto dentro un essere umano. Importa rimanere dostoevskianamente idioti, in una adulta parità ai bambini – e compiere continui, ottusi atti di fiducia nella bellezza, stare vicini alla integrità preverbale del mondo dove ogni dettaglio è il mondo. Importa ringraziare.

   

18 Dic

Socialisti, siate realisti

Ultimo aggiornamento Martedì 20 Dicembre 2011 07:29 Scritto da Ada Masoero – Il Sole 24 Ore

È il destino di ogni arte di regime condividere gloria e rovina con il dittatore, subendone poi per decenni l’identica damnatio memoriae. Difficile risalire la china, anche per artisti grandissimi, come il nostro Sironi, liquidato come “pittore fascista” per quasi 40 anni dopo la fine della dittatura, a dispetto della sua gigantesca statura d’artista.

Sono bastati invece vent’anni al Realismo socialista sovietico per essere sdoganato sulla scena internazionale. Così, se la Royal Academy of Arts presenta a Londra dal 29 ottobre al 22 gennaio Building the Revolution. Soviet Art and Architecture 1915-1935 e Chicago propone fino alla stessa data un fitto programma di mostre ed eventi sotto il titolo di Vision and Communism, il Palazzo delle Esposizioni di Roma, dopo la monografica del più dotato degli artisti sovietici, Aleksandr Deineka, completa ora la ricognizione su quegli anni con Realismi socialisti, una mostra curata da Matthew Bown, Evgenija Petrova e Zelfira Tregulova con Matteo Lafranconi; la prima di tale respiro fuori dalla Russia. Perché il plurale? Innanzitutto perché il percorso copre un arco cronologico dilatato rispetto a quello canonico, avviandosi nel 1920, quando ancora in Urss sopravvive qualche libertà d’espressione, per protrarsi fino al 1970, in età brežneviana, quando gli artisti si rifugiano nel sogno e nell’interiorità. Ma, più ancora, perché il progetto curatoriale intende evidenziare come il monolitismo ideologico, almeno in alcune sue fasi, abbia saputo convivere con una discreta pluralità artistica.
Nei primi convulsi anni post-rivoluzionari, infatti, tanto Lunacvarskij, il potente commissario del popolo per la cultura, quanto David Šterenberg, da lui posto al vertice delle arti visive, non solo tolleravano ma incoraggiavano il lavoro degli artisti d’avanguardia, da Tatlin a Malevicv, da Kandinskij a Rodcvenko (da non perdere la sua bellissima monografica, sempre in Palazzo delle Esposizioni, che ne documenta la genialità di fotografo e di grafico). Tanto che il critico più ascoltato del tempo, Nikolaj Punin, poteva enunciare che «il comunismo come teoria della cultura non può esistere senza futurismo!». Peccato che Lenin non condividesse (propugnava «un’arte comprensibile alle masse»), e nemmeno Trotsky, che ripeteva: «la nuova arte sarà realista. La rivoluzione non vive di misticismo!». Il che fece ben presto salire alla ribalta artisti come Deineka, realisti sì, ma desiderosi di fecondare il dettato del socialismo con il seme ancora vivo delle avanguardie. Il ritorno all’ordine era del resto un vento che in quegli anni attraversava l’intera Europa dopo gli incendi delle avanguardie, e anche la nuova Russia sapeva stare al passo. Così, nelle due prime sezioni (dal 1920 al ’28 e di qui al ’36) è stupefacente riscontrare come, pur nel solco del solo realismo, il registro espressivo fosse variato e attento alle esperienze internazionali: c’è Filonov, con quella sua pittura brulicante di forme sfaccettate e cristalline, che dovrà poi rigettare; ci sono Petrov-Vodkin e Pimenov, che guardano a Grosz e a Dix; c’è Kustodiev che traduce la marcia del bolscevismo in una fiaba; ci sono i manichini, “eretici” perché spersonalizzati, di Malevicv. E c’è Deineka, qui con il cinematografico La difesa di Pietrogrado. Senza contare il tardo-impressionismo di Nikritin o di Labas. Ma a fare il controcanto ecco il super-accademico Isaak Brodskij, prediletto da Lenin, con un immenso quadro-stendardo che celebra la III Internazionale. Dopo, la musica cambierà: i pieni anni Trenta sono quelli del terrore e delle purghe staliniane ma anche quelli di un’arte mistificatoria, zeppa di operai gioiosi e di contadini festanti. Chi aveva assicurato qualche libertà agli artisti nel frattempo è morto, come Lenin, o è in esilio come Trotskij: il panorama si fa opprimente (esemplare, in mostra, Guida, amico, maestro di Šegal, vera pala d’altare laica innalzata a Stalin e Lenin), sebbene il solito Deineka riesca ancora a regalare qualche brivido. Bisognerà arrivare agli anni 60 e al sinora sconosciuto Gelil Koržev per trovare un artista capace di creare nuove immagini emozionanti ed eloquenti. Sulla peggiore arte sovietica resta però sospesa la domanda che si pone in catalogo (Skira) Ekaterina Degot: non sarà che «tanta bruttezza» è tale solo agli occhi di noi occidentali, abituati a vedere nell’arte un oggetto di mercato? Quella, ci rammenta la studiosa, era un’arte che ignorava i rapporti di scambio e di proprietà; una creazione collettiva destinata alla fruizione collettiva. A noi continua a parere indigesta, ma la domanda è lecita.

15 Dic

Il prezzo dell’arte contemporanea

Scritto da ANGELO AQUARO – LA REPUBBLICA

Hirst e kelly, i divi dell´anno un boom da 6 miliardi di dollari.     Negli Usa battuti tutti i record, dalle aste alla fiera di Miami. Un mercato folle che qualcuno definisce “una bolla” L´inglese, che fece il “teschio”, ha annunciato che si dedicherà anche alla pittura

NEW YORK. Quando, pochi giorni fa, i signori di Sotheby´s hanno fatto i conti dell´ultima asta, neppure Tobias Meyer riusciva a credere ai propri occhi. Se volete capire che cosa succede nel mondo dell´arte, Tobias è il vostro uomo: da vent´anni nella maison, sempre ai vertici da Londra a New York, Meyer è il responsabile internazionale per tutta l´arte contemporanea. I suoi ragionieri gli avevano presentato il solito pronostico: da 192 a 270 milioni avevano calcolato la possibilità di raccoltà. E invece quella collezione che sbandierava Francis Bacon e Gerhard Richter ha totalizzato, alla fine, la bellezza di 318,5 milioni di dollari.
«Al di là di ogni previsione» sorride ora Tobias. E certo: la più grande vendita dall´inizio della recessione. Domanda: ma visto che la recessione non sembra finita, anzi, com´è possibile che l´arte contemporanea continui a vendere a prezzi così folli? Il Wall Street Journal ha dedicato un intero inserto a spiegare al suo pubblico, più avvezzo alle azioni che ai chiaroscuri, che cosa vale la pena comprare e cosa no. E Newsweek ha realizzato una lunga inchiesta sulle follie dei prezzi. Il rombo blu sul rettangolo bianco di Ellsworth Kelly acquistato per 1,5 milioni. Il gabinetto medico di Damien Hirst venduto per 2,5 milioni di dollari.
Proprio il funambolico inglese sembra riassumere in sé lo spirito del tempo. Malgrado l´avviso contrario dei suoi stessi rappresentanti, all´alba del 2008, negli stessi giorni in cui il crollo di Lehman Brothers segnava l´inizio della fine per Wall Street, Mister Hirst raccolse all´asta di Sotheby´s 200,7 milioni di dollari, mettendo in vendita 223 pezzi pregiati, per giunta riveriti da una folla di 21mila visitatori. E tre anni dopo è sempre lui ad annunciare al New York Times un grande ritorno: al genere che aveva dichiarato estinto, quella pittura in cui i suoi pois sono un marchio di fabbrica, e soprattutto al mercato – imbarcandosi in un giro del mondo attraverso le 11 gallerie del suo sponsor Gagosian, con opere valutate dai 100mila ai 2 milioni di dollari.
Insomma in momenti di crisi l´arte sembra diventata, al contrario, un “bene rifugio” – naturalmente per chi se lo può permettere, spiega Jim Halperin della Heritage Auction Galleries: «Diversificazione dell´investimento». Dice però il sito francese Artprice.org che il mercato nell´ultimo anno è cresciuto addirittura del 34 per cento: totalizzando 5,8 miliardi di dollari. Davvero solo una questione di investimento?
Charlie Saatchie, il grande collezionista e gallerista, parla provocatoriamente di follia: accusando tanti amatori di non conoscere l´arte abbastanza. E certo i “nuovi ricchi” sono stati la benzina sul mercato degli ultimi anni: bruciato appunto da russi e cinesi. Ma questo è soltanto uno dei cinque fattori elencati da Blake Gopnik, il critico d´arte del Washington Post. Gli altri? Il primo è il prestigio, l´eccitazione che proviamo a possedere un bene veramente costoso – e che ha portato Ernst Beyeler, il cofondatore di Art Basel, la fiera di Miami, a sentenziare cinicamente: se qualcosa non vende, io raddoppio il prezzo. Il secondo è conseguente: la quotazione è più facile da apprezzare della bellezza e dunque “più costoso-più bello” è il sillogismo che innesca la spirale. Punto terzo: l´ebbrezza della caccia – impossessarsi di qualcosa di valore scatena quella competizione che fa impennare, ancora, i prezzi. Infine l´aura culturale che da ogni acquisto d´arte consegue: uno può comperare una flotta di Bentley o mezza Fiat – ma solo comprando arte assurge a quel ruolo di “patronaggio” culturalmente riverito.
La bolla dunque non scoppierà mai? Per la verità l´ottimismo è messo a dura prova da due novità. La recessione che non passa comincia a farsi sentire anche dalla Cina al resto del mondo che finora cresceva: e i nuovi ricchi tendono a riporre il portafoglio. E poi ci sono i soliti furbi. Il collezionista Pierre Lagrange ha fatto causa alla storica Knoedler Gallery di New York per avergli venduto un Pollock falso. La galleria ha chiuso dopo 150 gloriosissimi (finora) anni. E i curatori sono coinvolti nella più grande truffa dell´arte su cui indaga l´Fbi. Gli esperti già temono dunque un nuovo fattore: quell´effetto-sfiducia così deleterio in ogni mercato. Anche il buon Tobias è avvisato: la festa della sua Sotheby´s può restare – appunto – il punto più alto. Che neppure la casa d´aste più famosa del mondo riuscirà più a battere.

04 Dic

Zar Caravaggio

Scritto da Fabrizio Dragosei – Corriere della Sera

 In fila per il grande artista che può battere il record di Dalì «Era così stravagante, mi chiedo come abbia fatto simili capolavori»

Davanti all’ingresso del Puškin fa freddo e nevica leggermente. Le automobili imbottigliate in quell’eterno ingorgo che è Mosca sono coperte da un sottile strato bianco. Un’ora dopo l’apertura, la fila per entrare al «Museo statale delle arti figurative Puškin» ha già superato l’angolo e gli ultimi sanno che non se la caveranno tanto velocemente. Si entra in gruppi di 30 persone ogni venti minuti. Ce ne vorranno ben più di sessanta per superare l’ingresso, affrontare l’imponente scalinata affiancata da enormi colonne e arrivare al piano della mostra, «la più grande di Caravaggio mai organizzata fuori dall’Italia», come recitano con orgoglio le locandine.
Il Puškin è un museo curioso. Oltre alle tantissime opere provenienti da tutto il mondo (unica la collezione di impressionisti francesi) ha anche una vasta sezione dedicata alle copie. Copia del Davide di Michelangelo, copia del colossale bronzo equestre al Gattamelata di Donatello, poi statue romane, busti greci, sculture assire, sarcofaghi egizi. Un museo «educativo» dove i cittadini sovietici che certo non potevano recarsi all’estero avevano modo di ammirare quei tesori.
E ancora oggi il Puškin è frequentatissimo dalle classi in gita, come quella proveniente da Tver che sta per entrare nella grande sala che ospita i Caravaggio. Sono ragazzini piccoli, ma tenuti in riga con pugno di ferro dalle insegnanti. Qui non si corre, non si grida, non si usa il cellulare e la settimana successiva si viene interrogati su quello che si è visto.
Ai russi piace documentarsi, non solo guardare le opere che sono esposte. Nel salone foderato di stoffa rossa che ospita gli 11 quadri giunti dall’Italia, sono appesi ben 13 grandi pannelli che raccontano tutto di Michelangelo Merisi. A fianco di ogni quadro, invece, solo poche righe: «Martirio di Sant’Orsola, Napoli Palazzo Zevallos Stigliano»; «Flagellazione, Napoli museo Capodimonte». Il tutto, naturalmente, in caratteri cirillici.
Lena, col naso gelato dopo 40 minuti di fila, è un medico in pensione e dice che quando può «va sempre a vedere le mostre che si tengono al museo che non è lontano da casa». Come pensionata paga 150 rubli, l’equivalente di 3 euro e mezzo che non sono certo pochi per chi prende 300 euro al mese. I visitatori normali pagano 300 rubli (7 euro), ma gli stranieri sono più «normali» degli altri in base a norme che non sono mai cambiate da quando c’era l’Urss e pagano 400 rubli. Entrano gratis invalidi, veterani di guerra, eroi dell’Urss e della Russia; i minorenni la prima domenica del mese. Davanti alla cassa c’è un tabellone fitto di regole, tabelle e tariffe. Anche questo rigorosamente solo in russo.
Yurij, 26 anni, fa lo scultore e quindi non poteva non visitare la mostra di Caravaggio. «Il mese scorso ho tentato di vedere anche l’esibizione di Salvador Dalì, ma la fila era troppo lunga», racconta. Per l’occasione è stato stabilito il record di visitatori: 270 mila in 11 settimane, più di 4 mila al giorno. La mostra di Caravaggio, che si tiene in contemporanea a quella sul pittore inglese William Blake, potrebbe fare ancora meglio. Tre anni fa il canale televisivo Cultura ha trasmesso con grande successo il film su Caravaggio prodotto dalla Rai e altre tv europee. E ciò ha sicuramente contribuito ad aumentare le attese. Irina, 26 anni, commessa in un negozio di vestiti, dice di essere molto curiosa. «Voglio capire come una persona dalla vita così stravagante abbia poi potuto dipingere simili opere».
Il salone rosso è affollatissimo, tra chi legge i pannelli, chi ascolta le audioguide e chi ammira le tele. La mostra è aperta dalle 10 del mattino alle 7 di sera. Ma già si pensa che presto il personale dovrà fare gli straordinari.

04 Dic

Quei ricchi potenti ammaliati dal genio «borderline»

Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

 Il Cardinale invidiava l’artista straccione ma libero

Quando, nel 1592, il ventunenne Caravaggio arrivò a Roma da Milano, era uno sconosciuto fra le centinaia di pittori che tentavano di guadagnarsi da vivere in una città stremata dalla carestia e dalla crisi alimentare; secondo i suoi biografi Mancini e Bellori, appariva «estremamente bisognoso et ignudo», «senza recapito e senza provedimento» e «senza denari».
Come fece uno così a farsi strada nella giungla della plebaglia romana? La sua pittura era dura, secca, e senza abbellimenti riproduceva la parte peggiore della realtà: bari, prostitute, zingare, pellegrini straccioni, frutta marcia, piedi nudi e sporchi. Chi poteva comprare quadri così, contro ogni regola del decoro? Chi furono i collezionisti che videro in Caravaggio un genio e lo tirarono fuori dalla povertà provando, inutilmente, a imporlo anche alle gerarchie ecclesiastiche, ligie alle regole della Controriforma e dell’Inquisizione?
Il primo fu il cardinal Francesco Maria Del Monte. Un diplomatico consumato, un gay sui quarantacinque anni che, vista la facilità con cui si veniva messi al rogo, conduceva una vita riservatissima. In qualità di rappresentante dei Medici a Roma, tutto sapeva e tutto conosceva, ma nessuno poteva dire altrettanto su di lui. Sotto l’amabilità e le belle maniere, proteggeva il suo privato con reticenza assoluta. Suonava, amava la musica, il teatro e la scienza; allestì una distilleria alchemica nella villa del giardino Ludovisi, fu il primo a possedere il nuovo telescopio dell’amico Galileo, ma riuscì a non compromettersi nemmeno quando difese lo scienziato durante i guai con l’Inquisizione. Era una specie di Gianni Letta: il potere passava dalle sue mani, ma non lo esercitava. E soprattutto, in quella Roma grigia, dove era pericoloso pensare e parlare, dove Clemente VIII faceva bruciare vivo Giordano Bruno e combatteva una feroce battaglia contro prostituzione e sodomia, «il vizio indicibile», Del Monte praticava l’arte del tacere e della discrezione, senza mai sollevare un pettegolezzo su di sé.
Ebbene, fu proprio un burocrate così che si prese in casa un pittore povero in canna, sporco (le cronache del tempo dicono che si lavava pochissimo, anche dopo il successo) e attaccabrighe come Caravaggio. Lo ospitò nel suo palazzo Madama e lo protesse facendolo uscire di prigione ogni volta che gli sbirri lo arrestavano. Probabilmente, il compassato cardinal Del Monte vedeva in Caravaggio quella libertà e quella noncuranza verso la trasgressione che egli non si poteva permettere.
I Giustiniani, invece, i secondi grandi collezionisti di Caravaggio, vedevano forse in lui «la scoperta» à la page del loro prestigioso vicino di casa, il Del Monte: dei due fratelli di una famiglia di banchieri genovesi che aveva avuto il controllo delle finanze degli Asburgo di Spagna, Benedetto era cardinale, talmente intimo con il re di Francia Enrico IV che questi lo chiamava mon cousin, mentre Vincenzo era l’uomo più ricco di Roma da cui dipendeva il deficit del Papa. Aveva quindici anni meno del suo amico Del Monte ed era tutt’un altro tipo: sposato, padre, amante della caccia, borghese per spirito e attività, aspirante al titolo nobiliare, che poi ottenne. Quando morì, Vincenzo aveva accumulato quindici tele di Caravaggio, mentre Del Monte ne possedeva solo otto.
Gli altri nobili collezionisti romani furono i Mattei, mentre i Colonna, marchesi di Caravaggio, imparentati con i Doria principi di Genova, furono soprattutto i protettori che stesero intorno al pittore assassino, condannato alla pena capitale dal Papa, una rete di aiuti estesa fino a Malta. Senza questi ricchi e potenti, dal comportamento eccentrico rispetto ai loro pari, quel «cervello stravantissimo» di Caravaggio non ce l’avrebbe fatta. Gli opposti hanno sempre qualcosa che li attrae e il collezionismo di oggi continua a dimostrare la regola.

04 Dic

Grande successo per l’asta di arte contemporanea da Dorotheum

Ultimo aggiornamento Giovedì 22 Dicembre 2011 07:13 Scritto da Dorotheum

 L’asta di arte contemporanea di Dorotheum del 24 novembre 2011 ha esordito con l’aggiudicazione del dipinto di Ilya Kabakov, „All’Università 1972“ del 2002, a 754.800 Euro. L’opera, una versione idealistica della storia dell’arte russa, è stata esposta nel 2004 al Museo di Cleveland; l’artista, emigrato negli Stati Uniti nel 1987, ha voluto unire in quest’opera elementi del realismo socialista con forme dell’avanguardia suprematista, impressionista e espressionista (cat. n. 1401).
Molte le offerte di collezionisti internazionali che si sono susseguite nel corso dell’asta. L’opera del 1961 di Emilio Vedova ha raggiunto 444.300 Euro (cat. n. 1412), mentre il grande Kounellis (3,6 metri) e la „Superficie bianca“ di Enrico Castellani sono stati aggiudicati a 283.300 Euro ciascuno (cat. n. 1411, 1409).
L’opera di Robert Indiana, con la sua famosa parola-poetica „Love“ spruzzata su un frammento del muro di Berlino, ha raggiunto 151.470 Euro (cat. n. 1446) dopo una lunga serie di offerte.
Anche l’arte austriaca ha avuto il suo momento di gloria con diversi risultati di rilievo. L’opera di Max Weiler ha ottenuto 128.050 Euro (cat. n. 1414), le due opere di Arnulf Rainer 114.180 e 73.500 Euro (cat. n. 1454, 1413), mentre il divano di Franz West, della serie „12 Diwane“ ha raggiunto i 36.900 Euro.

Prezzi di rilievo per il moderno
Grande interesse per l’asta di arte moderna del 23 novembre 2011. Una sala affollata e molto attiva come anche le numerose telefonate hanno contribuito ad un intenso susseguirsi di offerte. Ottimi risultati per Joan Mirò, per Paula Modersohn-Becker, per Giorgio Morandi e per Giacomo Manzù.

Design e Jugendstil
Il prototipo „Sit-Sat“ di Massimiliano Fuksas & Doriana Mandrelli è stato aggiudicato a 67.400 Euro, mentre il divano „Woush“ di Zaha Hadid ha ottenuto 52.800 Euro nell’asta di Design del 22 novembre 2011. Sempre molto richiesti sono gli oggetti di Jean Prouvé che, con il suo „Gueridon bas“ realizzato nel 1945 ha raggiunto i 34.460 Euro.
Toplot dell’asta di Jugendstil, l’Ensemble Nr. 675 realizzato da Josef Hoffmann nel 1910: composto da 7 pezzi e prodotto da Kohn è stato aggiudicato a 29.580 Euro. Diverse offerte per il pendente con catena di Hans Bolek così come il busto in bronzo „Ophelia“ di Maurice Bouval, realizzato nel 1900.

110.760 Euro per la colomba di Mosca
Preziosi metalli hanno portato ad uno straordinario risultato per l’intera asta di argenti del 21 novembre 2011. La colomba di Mosca, 438 grammi di oro e 30,5 cm di larghezza, con stampato l’anno 1811 e probabilmente eseguita per un importante membro della ristretta cerchia dei Romanov, è stata aggiudicata a 110.760 Euro.

Prezzo eccezionale per la spilla Schratt 
Una spilla con diamanti e rubini, appartenuta all’attrice viennese Katharina Schratt, intima amica dell’Imperatore Francesco Giuseppe, è stata aggiudicata per 202.800 Euro al telefono nell’asta di gioielli del 21 novembre 2011. Il gioiello fu realizzato dalla gioielleria di corte k und k Köchert, di cui esistono due disegni eseguiti negli anni 1890-95.