10 Ago

Artisti russi del primo ‘900 alla scoperta dell’Ellade

10Ago2012

Scritto da Stefano Garzonio – il manifesto

TESTIMONIANZE «In Grecia con Serov» di Léon Bakst

Famoso pittore e scenografo, Bakst alterna la rivisitazione del mondo classico antico al racconto di tipi e di luoghi, descritti con laconica efficacia
In una celebre tela dal titolo Terror Antiquus (1908) Léon Bakst trasfigura quanto provò una notte a Delfi durante un temporale. Ecco come l’artista interpreta le proprie sensazioni: «Ancora adesso come tremila anni fa, a ogni primavera Zeus scaglia il tuono fra gli stuoli di aquile intimorite dai fulmini e nell’Ade Persefone, pietrificata dal dolore, strabica e terribile, attende assisa sul suo profondo trono di basalto che dalla terra proibita e in fiore scendano a lei creduli, fragili figli del sole – gli uomini…». Nel quadro la terra e tutte le vestigia umane sono inghiottite dagli elementi, mentre nel cielo fiammeggia un fulmine scagliato da Zeus. In primo piano si erge un’enigmatica figura femminile, la kore, che, accennando un vuoto sorriso, pare non curarsi di quanto avviene alle sue spalle.
Quest’opera è senz’ombra di dubbio il punto più alto raggiunto dal grande artista e celebrato scenografo e costumista dei Ballets Russes nell’ambito della sua riscoperta della cultura greca arcaica, liberata delle tante incrostazioni accademiche e neoclassiche che tanta parte avevano ancora nella tradizione artistica russa del tempo. La rivalutazione della ferina e pulsante vitalità dell’arte greca più antica da parte di Bakst è legata a un viaggio intrapreso in Grecia l’anno precedente, il 1907, insieme a un altro celebre pittore del tempo, Valentin Serov. I due artisti si erano recati in Grecia imbarcandosi a Costantinopoli e avevano seguito un itinerario complesso, da Atene a Delfi, Argo, Micene, Corinto, Epidauro, Olimpia, Corfù, soggiornando lungamente a Creta proprio poco tempo dopo la riscoperta della civiltà minoica da parte di Arthur Evans. Il viaggio dei due artisti fu segnato dalla frenetica indagine delle specificità figurative dell’arte greca e dette luogo a una ricchissima messe di schizzi e disegni. Allo stesso tempo i due amici si immersero nella colorita e vivace vita della Grecia del tempo, segnata ora dal turbinio degli spostamenti dei tanti viaggiatori e turisti, ora dalla diffidente inedia del mondo levantino, ora accompagnata dall’aroma del denso e scuro vino ellenico, ora dal languore fumoso dei caffè.
Di questa esperienza Bakst scrisse in un libriccino intitolato Serov i ja v Grecii («In Grecia con Serov»), che uscì a Berlino nel ’23 e di cui Igor’ Stravinskij caldeggiò invano la traduzione in inglese. Ripubblicato in Russia in epoca sovietica solo all’interno di un’antologia di scritti memorialistici su Serov, questo testo viene ora proposto in traduzione italiana curato da Valentina Parisi per la collana «Letteratura di Viaggio» della casa editrice milanese Excelsior 1881(pp. 295, euro 14,50). Un’elegante e informatissima prefazione traccia nei dettagli il ritratto di Léon Bakst artista e uomo, ne ricostruisce i legami con il mondo dell’arte russo, con gli ambienti della rivista «Mir iskusstva» («Il mondo dell’arte») insieme a Nikolaj Benua e Sergej Djagilev, con il teatro drammatico (ad esempio per la messa in scena dell’Ippolito di Euripide nella traduzione di Dmitrij Merezhkovskij), il balletto (l’assidua collaborazione con Djagilev, le scenografie per Ida Rubinstejn, Tamara Karsavina e per la Anna Pavlova, i grandi successi dall’Uccello di fuoco a Sheherazade, Dafni e Cloe, Il Martirio di San Sebastiano, l’Après-midi d’un faune, fino alla Fedra dannunziana) e la coeva letteratura del «Secolo d’Argento» (Bakst ci ha lasciato tanti celebri ritratti di letterati del tempo). Se ne ottiene un ritratto a tutto tondo dove la generale esperienza artistica di Bakst è misurata in primo luogo in relazione alla sua rivisitazione del mondo classico antico. Tra l’altro, molti degli schizzi realizzati dall’artista durante il viaggio e conservati presso il Museo Russo di Pietroburgo sono riprodotti nel volumetto, attribuendogli così i tratti di una vera e propria novità e unicità documentaria. Naturalmente la curatrice si occupa anche dell’altro artista, Valentin Serov, che morirà pochi anni dopo, nel 1911, e ricostruisce i dati salienti della sua esperienza artistica e il suo rapporto con Bakst, la loro sinergia creativa.
Ma il denso testo memorialistico di Bakst è innanzitutto una testimonianza di vita, nella quale i rapporti umani, la quotidianità e nel contempo la scoperta di un mondo esotico e prima solo vaneggiato, sono presentati grazie a una scrittura precisa, essenziale, proprio alla maniera di uno schizzo preparatorio per un quadro. Si passa dal caso del figlio adolescente di un colonnello ritrovato in un bordello, alle grida di un custode quando i due amici pittori salgono a Olimpia sul frontone del tempio di Zeus per toccare con mano le statue di Niobe e dei Niobidi, dalla sensuale danza dell’araba Patha-Patha al contrasto tra le vere donne greche di Delfi («guarda la prima: non si capisce se sia un’antilope, un’antica kore del museo dell’Acropoli») e i tanti levantini, albanesi, balcanici, arabi e siriani («quella fricassea di levantini dall’aria losca che si spacciano per discendenti di Fidia, Socrate, Eschilo»).
Bakst si dimostra letterato fine e elegante, capace di laconica completezza descrittiva, attento al dettaglio psicologico e comportamentale, non estraneo alla nota di colore appena accennata, con lievità e rigore. Da qui le tante descrizioni dei luoghi e dei tipi che hanno sempre come rimando sottinteso quel mondo dell’Ellade omerica che nel suo scultoreo risalto sovrasta il quotidiano e vacuo cicaleccio della vita pulsante d’oggi giorno, quasi a monito in quella estenuante attesa del cataclisma che caratterizza tutta l’esperienza artistica dell’arte europea a cavaliere tra i due secoli. La bella traduzione di Valentina Parisi, l’apparato critico, direi l’amorosa cura, che accompagna il testo con note e precisazioni (fondate anche sulla corrispondenza dei due pittori con le rispettive mogli da dove risalta la diversa ricezione di luoghi e persone da parte dei due artisti) fa di questo libretto un invito a ripercorrere nella Grecia di oggi l’itinerario dei due pittori russi inseguendo l’illusione di riafferrare le loro intuizioni creative.

03 Ago

Ma il patrimonio d’arte italiano non si può vendere

3Ago2013

Scritto da VITTORIO SGARBI – Corriere della Sera

 

Ho letto con attenzione l’articolo di Barbara Rose sulla «Sfida italiana» («la Lettura» di domenica 29 luglio). Non c’è niente da obbiettare. Invitai la Rose fra i segnalatori, anche internazionali, per il Padiglione Italia dell’ultima Biennale di Venezia. Certo, a Venezia, intendevo guardare le espressioni artistiche indipendentemente dal mercato, un’impresa forse impossibile, da cui la provocazione «L’Arte non è cosa nostra». Invece lo è a tal punto che la rappresentazione della Rose, oltre che desolata, è sconfortante: «gli artisti italiani di oggi sono vittime di un sistema corrotto».
Siamo d’accordo. Ma mi chiedo, ad esempio, perché la Rose non abbia ricordato Luigi Serafini, noto anche in America attraverso l’editoria, non le gallerie. E non avrei dimenticato Gino de Dominicis. O Gaetano Pesce che abita a New York. Si dirà: «sono eccentrici». Ma l’arte, lo sa bene la Rose, non è soltanto pittura e scultura. Se poi ci inoltriamo tra gli artisti segreti avrei segnalato Federico Bonaldi, Piero Guccione, Filippo Dobrilla, Andrea Martinelli. Infine, tra gli illustratori (ma veri artisti!) Domenico Gnoli, Tullio Pericoli, Roberto Innocenti.
Parlando dell’assenza di artisti italiani nel panorama internazionale, la Rose scrive: «La scusa dell’Italia è che, data l’importanza del patrimonio nazionale, tutti i fondi disponibili devono essere destinati alla sua conservazione. Pensate quanto gioverebbe all’arte italiana contemporanea la decisione di aprire gli immensi depositi in cui è custodito il patrimonio storico in eccedenza, venderne il contenuto e destinare il ricavato alla promozione degli artisti viventi!».
Difficile sostenere che non sia giusto destinare i fondi alla conservazione. Lo farebbero per primi gli americani. Ma il luogo comune di vendere il patrimonio storico in «eccedenza» è addirittura imbarazzante. La proposta è ricorrente, ma non solo impraticabile, anche oscena. Ma quale «eccedenza!».
Mi spiego , e lo dico da anni: gli acquirenti delle opere d’arte italiane vogliono capolavori. Chiedono Raffaello, Leonardo, Caravaggio, Giotto, preziosi e ovviamente invendibili. Nei depositi stanno i «minori», che hanno, inevitabilmente, «minor» valore e destano «minore» interesse. Come immaginare, e che valore dare, fuori dai luoghi di origine, ad artisti come Matteo da Gualdo, Liberale da Verona, Girolamo da Cremona, Lorenzo da Viterbo, Cola dell’Amatrice, Andrea da Salerno, Girolamo Siciolante da Sermoneta, Giovanni de Mio da Schio. Tutti maestri ragguardevoli ma con valori di mercato relativi e apprezzamento, pur notevole, locale. Nulla, in Italia, è in eccedenza, se non qualche prodotto seriale archeologico, di modestissimo interesse per qualunque collezionista o museo.
La strada, dunque, è chiusa ed è inimmaginabile che possa produrre effetti utili per la promozione degli artisti viventi, in larghissima misura comunque meno significativi dei maestri storici locali.
Inaccettabile è anche un’altra considerazione della Rose: «In questo contesto desolante, ha operato Nicola Spinosa, che ha passato gli ultimi giorni da soprintendente al polo museale a difendere, con le unghie e con i denti, il prezioso Caravaggio custodito nelle gallerie di Capodimonte».
È vero esattamente il contrario. Fu un errore e una prepotenza. Il Caravaggio di cui parla la Rose appartiene alla Chiesa di San Domenico di Napoli, per cui fu dipinto: è «La flagellazione». La chiesa custodiva anche l’«Annunciazione» di Tiziano, pure «rapita» dalla Sovrintendenza, con diversi pretesti di tutela, nonostante che l’ente proprietario sia il F.E.C. (Fondo Edifici di Culto) del ministero degli Interni.
Allo stesso modo, a Napoli, nel Pio Monte, è conservata un’altra tela di Caravaggio, «Le opere di Misericordia». Nessuno penserebbe di trasferirla a Capodimonte. Così come — Barbara Rose ne converrà — sembrerebbe assurdo depositare alla Galleria Borghese i dipinti di Caravaggio di San Luigi dei Francesi, o all’Accademia di Venezia (come già fu fatto) l’«Assunta» di Tiziano ai Frari. Si dirà: ma Napoli è meno sicura. Eppure le sue chiese sono piene di opere d’arte straordinarie.
Si tratta di un’ingiustizia. Nessun valore è più degno di essere salvaguardato della pertinenza di un’opera alla sua sede. I musei sono l’extrema ratio, sedi terminali, in assenza di alternative. Cimiteri. Già abbiamo dovuto sacrificare molti capolavori per i musei americani.