24 Mar

Rivoluzione nel mercato dell’arte Pechino diventa capitale mondiale

Scritto da PAOLO MANAZZA – Corriere della sera

Era nell’aria da alcuni mesi. E puntualmente la notizia è arrivata. Dal 2010 la Cina è al primo posto assoluto nelle compravendite di Fine Art a livello internazionale. Un dato che rappresenta «una vera onda d’urto» , come ha specificato Thierry Ehrmann, fondatore e massimo dirigente di Artprice, l’agenzia leader mondiale sul mercato dell’arte che ha diffuso l’informazione. Ci sono voluti solo tre anni per compiere l’enorme salto dal terzo posto nel 2007 al primo nel 2010. Ora Stati Uniti e Inghilterra seguono il gigante asiatico. Dal 1950 in poi questo tipo di graduatoria ha come riferimento specifico quello dei risultati conseguiti presso le case d’asta, poiché il mercato delle gallerie e delle transazioni private è giudicato assai opaco. Nel 2010 la Cina ha rappresentato il 33 per cento delle vendite globali di Fine Art (ossia pittura, installazioni, sculture, disegni, fotografie e stampe) contro il 30 per cento degli Usa, il 19 del Regno Unito e il 5 della Francia. Inoltre, nella top-ten mondiale degli artisti più venduti ci sono ben quattro cinesi, il più basso dei quali Fu Baoshi — in termini di fatturato — ha generato scambi per 112 milioni di dollari l’anno scorso. Gli altri sono Qi Baishi, Zhang Daquian e Xu Beihong. Senza contare la più giovane generazione di artisti cinesi che di giorno in giorno si sta imponendo all’attenzione dei collezionisti. Sempre secondo Artprice nella classifica mondiale dei contemporanei più aggressivi, i cinesi sono ben sei (Zeng Fanzhi, Chen Yifei, Wang Yidong, Zhang Xiaogang, Liu Xiaodong e Liu Ye) rispetto ai tre americani (Basquiat, Koons e Prince). Dunque il cuore del mercato dell’arte batte con sempre più forza a Pechino, Hong Kong e Shanghai, dove operano, oltre a Christie’s e Sotheby’s, anche Poli International o China Guardian Auctions. Oltre ad essere la seconda potenza mondiale, nel 2010 la Cina si presenta ora come la nazione più forte nell’attenzione verso le opere d’arte. I collezionisti e gli operatori continuano a giovarsi del sostegno del governo, il quale considera i collezionisti disposti ad acquistare arte come veri e propri «patrioti» . Pechino sembra aver compreso la forza dell’arte nella storia e nell’immagine delle nazioni. Il grande primato raggiunto sembra però non essere ancora del tutto convincente. I dati forniti da Artprice si riferiscono infatti solo ad alcuni settori (seppur preminenti) di tutto il mercato. Una ricerca presentata la settimana scorsa durante il Tefaf a Maastricht (la fiera dell’arte più influente al mondo) ha chiarito che considerando globalmente tutti i comparti del mercato (ossia oltre al Fine Art anche l’antiquariato, design, gioielli, orologi e oggetti) la Cina nel 2010 ha superato il Regno Unito, piazzandosi al secondo posto dopo gli Stati Uniti che registrano una quota del 34 per cento, contro il 23 dei cinesi e il 22 degli inglesi. Il sorpasso, direbbe il nostro Dino Risi, c’è stato. Ma non è l’ultimo da compiere.

24 Mar

Picasso Miró, Dalí. Intrecci geniali

Scritto da Wanda Lattes – Corriere della Sera

Dopo il successo della mostra sul Bronzino, trionfante nella natia Firenze, la Fondazione Palazzo Strozzi gioca la carta internazionale con tre spagnoli dirompenti, Pablo Picasso, Joan Miró e Salvador Dalí, protagonisti del gran Novecento parigino. Già dal titolo, «Giovani e arrabbiati: la nascita della modernità» , l’esposizione mette in rilievo le qualità «giovanili» , «di rottura» delle rispettive produzioni, in una movimentata epoca, lunga oltre venti anni, vissuta in maniera autonoma dai tre artisti, diversi per età e formazione, e però legati dal filo dell’amore ambizioso per la libertà. Il percorso è dunque un incontro, un intreccio di genialità autonome, segnate dall’aspirazione al nuovo, alla giovanile potenza. Curata da Eugenio Carmona dell’Università di Malaga e da Christoph Vitali, consulente dei grandi musei svizzeri, la rassegna vuole esplorare i percorsi dei tre pittori, cresciuti in Catalogna, ma legati dagli incontri determinanti con la insostituibile, fertile Parigi dei primi decenni del Novecento. La visione delle opere va a ritroso nel tempo, «come un film importante, emozionante» , dice Carmona. Infatti la prima delle cinque sezioni parla del tempo più vicino a noi. Sulle pareti, alcune scritte, come la frase di un audace Dalí che incontra — siamo nel 1926 — Picasso e lo omaggia. Dice: «Maestro, son venuto da lei prima di andare al Louvre» . E si sente rispondere un secco: «Molto bene» . Poi, libero e felice, si getta nella sua creatività. Il suo «Nudo nell’acqua» verrà donato, nel tempo, a García Lorca! Seguono la sala del «Neucentisme» (siamo tra il 1915 e il 1925) in cui Miró e Dalí esaltano gli scenari della Catalogna in uno scenario artistico che reagisce agli eccessi del Modernismo; e poi quella del rapporto tra Miró e Picasso, con un incontro mancato a Barcellona nel 1917 all’epoca della rappresentazione dei Ballets Russes e uno avvenuto a Parigi nel 1920: qui Miró viene convinto da Picasso della necessità di vivere nella capitale francese per essere un artista libero, eppure resta incapace di staccarsi dalla sua profumata regione natia. Infine, in questo viaggio all’indietro si arriva ad analizzare quel percorso creativo di Picasso (tra il 1895 e il 1907) che segna la nascita della modernità. Con una chicca che Carmona suggerisce come una specie di guida spirituale, cioè i ben ottantasette schizzi del «Cahier 7» . Una guida del gusto, dell’istinto creatore, insomma, portato direttamente dalla casa natale di Malaga. Un’esperienza visiva senza paragoni. Si può supporre, senza nulla togliere agli altri due autori, che il nome destinato a eccitare in partenza lo slancio del pubblico sia ovviamente quello di Pablo Picasso; e infatti non a caso i «Pensieri» , che distinguono le sezioni, rimandano tutti alle date degli incontri parigini con colui che nessuno si azzarda a considerare «par inter pares» . Appare, amato e temuto protagonista, quel Picasso nato nel 1881 (mentre Miró è del 1893 e Dalí del 1904) e inaugura la sua vita parigina, la sua ribellione politica, la sua avversione «anarchica» per l’arte borghese, proprio agli inizi del secolo. Il visitatore troverà tra l’altro, proveniente da Mosca, il famoso «I due saltimbanchi» assieme alla «Danzatrice spagnola» , che viene da New York, «Le peonie» (da Washington) e anche il quadro dedicato nel 1937 alla «Donna che piange» , assai più vicino al proverbiale stile di «Guernica» . I disegni del «Cahier 7» rivelano la chiara origine delle famose «Demoiselles d’Avignon» , che segnano l’inizio del Cubismo.

21 Mar

Il processo che decide se Pablo Picasso era avaro o generoso

Scritto da Stefano Montefiori – Corriere della Sera

PARIGI — I familiari del grande scomparso — invece di difenderne la memoria — lo dipingono come un uomo arido e calcolatore, mentre gli estranei ne lodano la generosità senza pari: una strana polemica, a parti invertite come in uno dei suoi celebri ritratti. Chi era, dunque, Pablo Picasso? Il genio che portò all’infelicità le sue donne, immenso pittore e pessimo uomo incapace di slanci, o il più grande artista del XX secolo, attraversato da mille contraddittorie passioni tra le quali il gusto di donare, a tutti e senza pensarci, riscattando così i tempi duri degli inizi quando frugava nei bidoni della spazzatura a Montparnasse? C’è l’identità e la personalità stessa dell’autore di Guernica in gioco— oltre a 271 opere del valore di 120 milioni di euro — nel processo che a Grasse vede opposti gli eredi di Picasso e il suo elettricista in pensione. Il 9 settembre scorso il 71enne Pierre le Guennec e la moglie Danièlle si presentano a Parigi da Claude Picasso, figlio del pittore e a capo della «Picasso Administration» , la società che amministra l’eredità del maestro. Nel trolley, opere mai viste prima, che i due pensionati vogliono fare autenticare. Sbalordito, Claude li lascia tornare a casa in Provenza assicurando loro che li terrà al corrente. Poi li denuncia per ricettazione di opere d’arte, e Pierre le Guennec passa due giorni in custodia cautelare. «Mio padre era estremamente geloso delle sue opere — spiega Claude Picasso —, non ne avrebbe mai regalate così tante a degli estranei. Era solito firmare ogni quadro che lasciava il suo atelier, e invece quelli in possesso dei le Guennec sono senza nome, anche se chiaramente dipinti da lui» . L’elettricista e la moglie continuano invece a sostenere la solita versione: un regalo di quaranta fa, rimasto finora in garage. Possibile? No, secondo gli eredi Picasso, che vogliono riprendersi i nove collage cubisti che da soli valgono 40 milioni, un acquerello del periodo blu, tempere su carta, alcuni studi di mani dipinti su tela, una trentina di litografie, dei ritratti della prima moglie Olga, una caricatura del giovane critico Andrè Salmon, e tutto il resto. Secondo i le Guennec, Picasso era straordinariamente generoso. Con loro, e con molti altri. «È stata Jacqueline, l’ultima moglie di Picasso, a dare tutto a Pierre le Guennec mentre il maestro era ancora in vita, con il suo accordo— dice l’avvocato dei le Guennec, Evelyne Rees —. Erano una coppia che provava piacere a fare regali. Da quando è scoppiato il caso sono entrata in contatto con altre persone che hanno ricevuto regali simili, ma non vogliono venire allo scoperto per paura di venire processati come i miei assistiti» . Provare la generosità dei Picasso significherebbe scagionare i le Guennec. Ecco quindi il fiorire di aneddoti: Picasso che, quando lavora alla tipografia di Henri Deschamps, offre una litografia a ogni operaio; uno di loro non sa che farsene, dice di preferire del formaggio, e Picasso ritorna portandogli del port-salut. Ancora, alla padrona di un ristorante catalano di Marsiglia dove gusta un’ottima bouillabaisse Picasso regala il disegno di uno scampo con la scritta Merci, e ai camerieri lo schizzo di un pesce ogni volta diverso. Al suo cardiologo 66 acqueforti, ai bagnini di Juan-Les-Pins dipinti vari e al suo barbiere Eugenio Arias 60 opere, tanto che ne farà un museo. La moglie Jacqueline non è da meno: morto il maestro nel 1973, regalerà un ritratto ad Antonio Sapone, figlio del sarto di Picasso, e un altro dipinto al figlio di Guy, il suo autista. Geneviève Laporte, a 17 anni, è stata la modella e amante dell’allora 69enne Picasso. Ha sentito del processo alla radio, e ha raccontato a Le Point che è vero, il maestro amava fare doni e la storia dei le Guennec è del tutto verosimile. «Una volta eravamo nel suo studio di quai des Grand Augustins, a Parigi, e degli operai spagnoli suonarono alla porta chiedendogli dei soldi. Lui staccò subito un assegno, ma si infuriò quando quelli pretesero anche un quadro» . Un’altra volta, Picasso regalò un disegno a una ragazzina per strada, e quando quella esultò con i genitori «guardate, vale milioni!» , lui glielo riprese e lo strappò davanti ai suoi occhi. Generoso, ma pur sempre Picasso.

13 Mar

I geni spagnoli che rifondarono la pittura del ‘900

Scritto da Fabrizio D’Amico – la Repubblica

 Dalì racconta di essere andato a trovare Picasso appena arrivato a Parigi: nessuno sa come sia andata davvero quella visita, ma certo il futuro pittore surrealista dipingerà l´ “Accademia neocubista” L´emozione che traspare nelle citazioni picassiane della “Accademia neocubista” Per il catalano Joan, il meno arrabbiato del trio, il surrealismo fu solo un transito

Firenze, “Pictor en misere humane”, aveva iscritto poco prima, in un latino approssimativo, un suo autoritratto, Picasso. E dunque quando, agli inizi dell´autunno del 1901, «aveva potuto visitare la prigione femminile di Saint-Lazare, dove le recluse separate dalle altre perché affette da malattie veneree portavano un berretto frigio», non v´era andato probabilmente, come poi volle un esegeta di quel tempo picassiano, a cercare in quelle «prostitute, in specie le più miserabili, vittime della situazione politica ed economica» un segno dell´ingiustizia e della violenza sociale del mondo in cui viveva, ma una luce capace di trasfigurare quella miseria in poesia, in canto opaco e malinconico.
Veniva da Barcellona, dal crudo verismo, addolcito appena dal retaggio tardo impressionista e già quasi sfiorato dall´art nouveau, de “Els 4 Gats”, cenacolo dell´avanguardia catalana di cui aveva condiviso la vita grama e avventurosa, e da alcuni mesi trascorsi a Madrid; ed era a Parigi per la seconda volta. Nasceva allora, e sarebbe durato per quasi tre anni, il “periodo blu” della sua pittura. Picasso, fin quasi al termine di quel periodo, andò e tornò senza requie (e senza un soldo), fece ansiosamente la spola fra quelle che sarebbero rimaste le sue due città; prima di stabilirsi nella capitale di Francia e (per le arti) d´Europa nel 1904, quando, giusto al termine del suo periodo blu, si ferma in un quartiere e in una baracca destinati a divenir celebri come luogo in cui l´arte moderna è sbocciata: il “Bateau-Lavoir” di Montmartre.
Idealmente la mostra odierna di Palazzo Strozzi si apre con un dipinto aurorale di quel tempo: la Stiratrice dedicata a Sabartés (amico e poi assistente di Picasso), ora al Metropolitan di New York, del 1901: una di quelle immagini rubate al dolore del carcere di Saint-Lazare, dove le modelle costavano nulla; e dove Picasso figurò la solitudine, la fatica di esistere di una donna ottusamente china sul suo lavoro; fatica e solitudine già splendidamente riassunte nel giro lento di quelle spalle piegate e vinte alla sommità della piccola tela. Qualcosa, di quel suo tempo, risucchia ancora all´indietro: verso il simbolismo che aveva segnato, e talora magnificamente soprattutto nel nord Europa, gli anni ultimi del secolo XIX; ma è pur vero che di qui, proprio all´avvio del secolo nuovo, parte il Picasso interamente originale, che si libererà presto d´ogni ricordo, o meglio che saprà rivolgere i suoi infiniti ricordi in volontà onnivora, che tutto macina e reinventa, tutta e soltanto sua.
Idealmente, si diceva, perché in realtà la mostra di Firenze (Picasso, Miró, Dalí. Giovani arrabbiati: la nascita della modernità, a cura di Eugenio Carmona e da Christoph Vitali) è costruita “à rébours”, e quindi questo primo tempo picassiano qui indagato occupa le sue ultime sale, mentre le prime documentano l´episodio (reale o soltanto vagheggiato; meglio: reale o surreale?) della visita che Dalí avrebbe fatto allo studio di Picasso nella primavera del 1926: uno giovanissimo (nato nel 1904, è poco più che ventenne), l´altro già da lungo tempo dominatore della scena parigina.
Dalí, che è in procinto d´essere definitivamente espulso dall´accademia San Fernando di Madrid avendo rifiutato di sottoporsi a un esame per “l´incompetenza” dei propri maestri, sta perfezionando il profilo che s´è ripromesso di dare alla sua personalità d´artista eccentrico e paradossale, e sta per stringersi al gruppo surrealista di Breton. Non è mai stato, un timido: ma avvolge il racconto dell´incontro con Picasso di emozione.
Emozione che lascia scopertamente trasparire nelle tante citazioni picassiane della Accademia neocubista, la maggiore per dimensioni delle opere della sua gioventù, oggi esposta a Firenze come lo fu nella seconda personale che il pittore tenne, con successo, al rientro in Spagna, alla galleria Dalmau di Barcellona. Una “lezione”, forse, quel gran quadro, impartita fin dal titolo ironico a quegli “accademici” che l´avevano espulso; certo, un omaggio al grande spagnolo appena “visitato” a Parigi, di cui la donna a sinistra ripete le forme del “ritorno” classico degli anni Venti, mentre nella donna a destra sta tutta la lascivia del Dalí che verrà d´ora in avanti. Era stato diverso, più saggio, il Dalí degli anni primissimi, che la mostra documenta: con opere rare, come il Paesaggio di Cadaqués del ‘23 o la mirabile mina di piombo dello studio per il Ritratto di Marìa Carbona (1925).
Vicino, allora, Dalí, al talento di un miniaturista: come lo era stato Joan Miró negli anni della formazione. Intento a contare tutte le pietre e le tegole della casa paterna a Montroig o, uno per uno, i fili d´erba del prato che la circondava, i suoi orti, e gli animali, e i contadini di lì. Certamente, Miró, il meno “arrabbiato” dei tre, per tornare al titolo della mostra odierna; per lui infatti il surrealismo (la cui prima stagione egli pur fiancheggiò: legandosi a Masson, Artaud, Leiris, Aragon, Breton; partecipando alle mostre del gruppo, a partire da quella del 1925; e pubblicando le proprie opere su La révolution surréaliste e su Minotaure), con i suoi eccessi anche temperamentali, fu un transito, non un approdo.
Un transito grazie al quale la sua pittura dalle radici antiche e mai dimenticate (che scendono al tempo romanico della sua terra, la Catalogna, e al punto di confine fra tardogotico e Rinascimento italiano – dal Beato Angelico al Sassetta – o ancora alla fissità iconica di Bisanzio, ad un Oriente ancora più remoto, al Medioevo germanico e a Bosch) si rese disponibile alla modernità, ed anzi chiave essenziale per tante sue strade a venire: aprendo al surrealismo stesso la porta di Kandinsky e dell´astratto; e consegnando infine ad Arshile Gorky, e attraverso di lui alla nuova arte americana, i tesori meno effimeri del surrealismo.

   

13 Mar

Le prostitute di Barcellona madri del cubismo

Scritto da LEA MATTARELLA – la Repubblica

A Firenze, a Palazzo Strozzi tre grandi protagonisti del secolo scorso L´esposizione mette a confronto sessanta opere della produzione giovanile
Il Cahier numero 7 sulle “Demoiselles d´Avignon” .  Per la prima volta in Italia le 120 pagine di disegni preparatori del capolavoro picassiano: doveva chiamarsi “Il bordello” ritrae ragazze di vita catalane

Non ci sono dubbi che la capitale dell´arte, il luogo in cui si abbandonano gli stereotipi dell´Ottocento e si imbocca la strada della modernità sia Parigi. Ma, come emerge dalla mostra che si apre a Palazzo Strozzi, a Firenze, esiste una linea spagnola fondamentale per ricostruire la grande rivoluzione pittorica del XX secolo. La trinidad composta da Picasso, Miró e Dalí è la prova del ruolo imprescindibile avuto della Spagna nella formazione del nuovo linguaggio figurativo. Parigi è il centro catalizzatore di un pullulare di idee, sguardi incrociati, incontri al centro del quale c´è il grande genio del Novecento, Pablo Picasso che, sebbene i francesi si ostinino a chiamare Picassò, come fosse di loro proprietà, è nato a Malaga nel 1881. Ora è proprio lui, nel 1907, a dare una bella sterzata alla pittura dell´Occidente mettendo in cantiere le Demoiselles d´Avignon. E l´elaborazione di questo dipinto-manifesto esce oggi dalla Spagna per raggiungere Firenze. È esposto infatti integralmente per la prima volta il Cahier 7 che arriva dal Museo della casa natale di Picasso a Malaga. È qui, su questo quaderno – 120 pagine a righe un po´ ingiallite- che Picasso ha tracciato prima a matita e poi a inchiostro i volti e i gesti di quelle fanciulle, un po´ maschere primitive e un po´ rielaborazioni di figure classiche e di sculture iberiche, diventate icone della pittura del Novecento.
E chi le immagina francesi queste ragazze di Avignone si sbaglia di grosso. È a Parigi, dove viveva dal 1904, che Picasso le dipinge. Ma il Carrer de Avinyo era la strada delle prostitute di Barcellona, dove l´artista aveva vissuto prima del suo trasferimento in Francia. E infatti il quadro inizialmente doveva chiamarsi Il bordello, anche se poi André Salmon consapevole dell´importanza che questo dipinto avrebbe assunto nella storia del pensiero dell´immagine occidentale lo aveva soprannominato “il bordello filosofico”.
Il quaderno rivela il modo di lavorare di Picasso, quel suo prendere, afferrare immagini, suggestioni da qualsiasi parte gli arrivassero. Guardava l´arte dei musei, ma anche quella popolare “A me la pittura piace tutta –affermava – guardo sempre i quadri buoni o cattivi che siano, dal barbiere, nei negozi di mobili, negli alberghi di provincia. Sono come un bevitore che ha bisogno di vino. Purché sia vino non importa che vino”. Nel Cahier 7 si ha la prima apparizione di quell´arte extraeuropea che lo avrebbe sedotto per molto tempo, un´idea primordiale, primitiva che lo porta a inquadrare volti come maschere. Nello stesso tempo è ossessionato da uno stesso gesto, quello classico della figura distesa che tiene un braccio dietro la spalla e che, come rivela Eugenio Carmona in questa mostra, trova origine in una scultura di Antonio Canova, Il sogno di Endimione.
Quando arriva a Parigi, l´artista andaluso si innamora del mondo notturno di Toulouse Lautrec. In mostra c´è un´opera, bellissima, in cui si vede il suo modo di appropriarsene. Inquadra il mondo di Tolouse, quello del teatro, del cabaret, ma – sarà un caso? – la danzatrice che Picasso inquadra è spagnola.
La cosa certa, nel definire i rapporti tra questi tre geni spagnoli, è che sia Miró che Dalí, i due catalani, non appena mettono piede nella Ville lumière la prima cosa che fanno è recarsi da Picasso. Il primo lo raggiunge nel 1920, l´altro narra un incontro avvenuto nel 1926 che forse ha trasfigurato con la fantasia. Dice di averlo incontrato e di avergli portato un suo quadro, La ragazza di Figueiras, ancora una spagnola dunque. “Picasso lo studiò per un quarto d´ora, – racconta Dalí nella sua autobiografia – senza commenti. Poi mi condusse al piano superiore e per due ore mi mostrò una gran quantità di quadri, posandoli uno dopo l´altro su un cavalletto, dandosi enormemente da fare… ma anch´io non feci commenti. Sul pianerottolo, al momento del congedo, ci scambiammo semplicemente un´occhiata che significava: Hai capito? Ho capito!”. Probabilmente non andò esattamente così, il metodo paranoico-critico che il catalano applicava alla sua pittura, lo faceva fantasticare anche sui fatti della vita in cui realtà e surrealtà finivano per confondersi. Ma è bello immaginare i due spagnoli a Parigi che si riconoscono come coloro che stanno cambiando le sorti della pittura europea.

12 Mar

Biennale. “Contro la volgarizzazione dell´arte metto in mostra la ricerca dei giovani”

Scritto da DARIO PAPPALARDO – la Repubblica

Paolo Baratta e la curatrice Bice Curiger presentano gli 82 artisti scelti per l´esposizione: per 62 di loro è la prima volta a Venezia, gli italiani sono 9. Nume tutelare: Tintoretto

Sarà la Biennale dei giovani (32 artisti su 82 hanno meno di 35 anni), delle donne (32), delle “prime volte” (per 61 quello veneziano sarà un battesimo), dei tagli (50% in meno dal capitolo di spesa dei Beni culturali è il rischio prospettato). Ma, soprattutto, la 54ma esposizione di Venezia (dal 4 giugno al 27 novembre), presentata ieri a Roma al complesso di San Michele, sarà la Biennale di Bice Curiger, la nuova curatrice. Svizzera, a capo della Kunsthaus di Zurigo, direttore editoriale della rivista Tate etc della Gallery londinese, sesta personalità più potente del mondo dell´arte contemporanea secondo Art Review, arriva col suo sorriso contornato da rossetto «color ciliegia», come precisa il presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta, introducendola.
«Dobbiamo difendere l´arte dalla volgarizzazione», dice lei, più a suo agio con l´inglese che con l´italiano. «Bisogna distinguere tra “popolare” e “populista”. Sia chiaro: non sono contro il concetto di “popolare”. La mia generazione è cresciuta con la cultura pop, ma siamo arrivati a un punto in cui ci si deve guardare dalle degradazioni». Niente facili provocazioni, allora, promette la Biennale della Curiger, che ha come nume tutelare Tintoretto. Tre opere del pittore cinquecentesco, ancora misteriose, avranno un posto di rilievo nel Padiglione centrale: «L´incorporazione dei dipinti del Tintoretto in una biennale d´arte contemporanea trasmetterà segnali inaspettati e stimolanti». Tintoretto sarà il testimonial della luce, tema fondante di questa edizione sin dal titolo: ILLUMInazioni. «Un titolo che vuole celebrare il potere dell´intuizione e dell´appartenenza a un´idea ampia di “nazione”, in un tempo in cui gli artisti hanno un´identità poliedrica e sono migranti», spiega la curatrice che coglie nel non-finito, nel transeunte, uno degli elementi dello spirito del tempo. «L´arte contemporanea è caratterizzata da tendenze collettive e identità frammentarie, crea oggetti in cui è incisa la transitorietà anche se sono fatti di bronzo. L´artefatto finito ha lasciato spazio all´enfasi del processo mentre la riscoperta dei generi classici come scultura, pittura, fotografia e video mira a risvegliarne il potenziale latente».
I Paesi presenti saranno 88 (30 ai Giardini, nei padiglioni nazionali), undici in più della scorsa rassegna. La partecipazione riflette anche la geopolitica: l´Egitto è assente; il Libano ha rinunciato; ritorna l´India, che mancava dal 1982. Per l´Arabia Saudita e il Bangladesh, invece, si tratta di un esordio. Cresce l´importanza del Sudamerica, presente quasi al completo. Nel 2013 arriverà anche il Vaticano. Fatto salvo il Padiglione Italia, curato da Vittorio Sgarbi, sono 9 gli artisti italiani invitati all´esposizione principale: Giorgio Andreotta Calò, Meris Angioletti, Elisabetta Benassi, Monica Bonvicini, Gianni Colombo, Luca Francesconi, Luigi Ghirri, Giulia Piscitelli, Marinella Senatore. «Punterò sui giovani e sugli artisti che non hanno ricevuto il giusto riconoscimento nel tempo presente», continua Curiger, mostrando le opere di alcuni di loro a cui è particolarmente legata: un´eruzione di fuoco dell´americano Jack Goldstein (morto nel 2003), un disegno dell´etiope Gedewon (scomparso nel 1995) o le “satire” del tedesco Sigmar Polke, già molte volte presente a Venezia, mancato l´anno scorso proprio mentre la curatrice lavorava a una monografia sulle vetrate realizzate dall´artista a Zurigo.
Una delle novità della Biennale 54 sono i “parpadiglioni”: Franz West, Monika Sosnowska, Song Dong e Oscar Tuazon creeranno appositamente opere di carattere architettonico e scultoreo che “ospiteranno” il lavoro di altri. L´idea è stata fortemente voluta dalla curatrice: «In un grande spazio come quello delle Corderie, c´era il rischio che l´allestimento si risolvesse in una giustapposizione di cose: i “parapadiglioni” fungeranno da gioco dinamico».
In tempi di tagli, al momento anche la Biennale corre rischi: quest´anno riceverà dallo Stato 2,5 milioni di euro contro i 5,2 milioni su cui poteva contare fino a ieri e il sottosegretario Francesco Giro lancia un appello direttamente al presidente del consiglio. Il presidente della Biennale Baratta scherza, ma fino a un certo punto: «Sono venuto col maglioncino di Marchionne: ho fatto tutto quello che potevo per ridurre i costi. La mostra costa 13 milioni di euro e riusciamo a finanziarci da soli per l´85% con biglietti (450 mila le presenze nel 2009), affitti, diritti, ma di più non possiamo. Ci sono voluti 100 anni per fare di questa una delle esposizioni più importanti del mondo, basta poco per impoverirla. La concorrenza c´è: le biennali nel mondo sono tante».

12 Mar

La luce di Tintoretto illumina Venezia

Scritto da PAOLO CONTI – CORRIERE DELLA SERA

I numeri della Biennale: 88 Paesi, due artiste dall’Arabia Saudita

Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia, non indossa la solita cravatta scura ma un golf blu: «Sono qui con un maglioncino alla Marchionne per sottolineare che faccio di tutto per ridurre i costi» . Francesco Giro, sottosegretario ai Beni culturali e da dicembre unico interlocutore politico del dicastero, si rivolge a Berlusconi: «Lancio un appello non al ministro Tremonti, ma al capo del Governo affinché intervenga con un decreto per recuperare i tagli, salvaguardare il patrimonio culturale, preservare le istituzioni culturali che hanno razionalizzato le spese e puntano sulla qualità» . Clima da allarme rosso per i sempre più scarsi finanziamenti riservati all’universo culturale italiano. Mai vista una presentazione della Biennale di Venezia (siamo alla 54 ° edizione) meno spensierata e ottimista. Giro annuncia che i finanziamenti alla Fondazione («Baratta impegna bene i fondi pubblici, ne ammiro coraggio, lucidità e passione» ) passeranno dai 5,2 milioni di quest’anno ai 2,5 del prossimo. La preoccupazione generale è palpabile, lo spiega Baratta: «Un’istituzione come la Biennale si fonda sul rispetto e la fiducia del mondo intero perché in campo artistico devi avere la fiducia di tutto il mondo per mantenere il livello qualitativo che la Biennale vanta» . Si può, insomma, risparmiare senza intaccare la qualità. Ma c’è comunque un limite al di sotto del quale la competizione con altre analoghe istituzioni internazionali diventa impossibile. Intanto si va avanti con «ILLUMInazioni ILLUMInations» , che aprirà il 4 giugno per chiudere il 27 novembre ai Giardini e all’Arsenale: 82 artisti da tutto il mondo (32 giovani nati dopo il 1975, sempre 32 le presenze femminili) e 88 partecipazioni nazionali, incluso il Padiglione Italia all’Arsenale guidato da Vittorio Sgarbi («L’Arte non è Cosa Nostra» e «Lo Stato dell’Arte nel 150 ° anniversario dell’Unità d’Italia» ). Con un bel contropiede (e un esordio in una Biennale di arte contemporanea) la curatrice Bice Curiger piazzerà due o tre tele del venezianissimo Tintoretto nella Sala maggiore del padiglione ] La Biennale si svolgerà a Venezia (ai Giardini e all’Arsenale) dal 4 giugno al 27 novembre ] La Biennale presieduta da Paolo Baratta (nella foto grande di Francesco Galli) e curata da Bice Curiger (in alto) ospiterà 82 artisti provenienti da tutto il mondo (di questi 32 sono giovani nati dopo il 1975 mentre 32 saranno invece le presenze femminili). Numero record di partecipazioni nazionali, 88, con i loro padiglioni. Info: www. La Biennale org centrale della Biennale proprio per certificare come la luce sia sempre stata strumento di sconvolgimento e anticonvenzionalismo, e a maggior ragione lo sia oggi nel contemporaneo. Le opere ancora non sono state scelte, la trattativa con la soprintendenza è a buon punto. Ci sarà persino Haiti, nonostante la devastazione, ed esordirà l’Arabia Saudita sorprendendo tutti con due artiste donne, le sorelle Shalem, la scrittrice Raja e l’artista Shadia con un’opera («L’Arco Nero» ) che simboleggia il collegamento tra la Mecca e Venezia. Spiega la curatrice Bice Curiger: «La Biennale si concentrerà sulla “luce”generata dall’incontro con l’arte, sull’esperienza illuminante, sulle epifanie derivanti dalla comunicazione reciproca e dalla comprensione intellettuale» . Infatti «ILLUMInazioni» cita l’Illuminismo ma anche, spiega Curiger, le Illuminazioni poetiche di Arthur Rimbaud e le «Illuminazioni Profane» sull’esperienza surrealista di Walter Benjamin «fino alla venerata arte dei manoscritti medioevali miniati e alla filosofia illuminazionista nella Persia del dodicesimo secolo» . A Venezia si guarderà a un’arte contemporanea «caratterizzata da tendenze collettive e identità frammentarie, da alleanze temporanee e oggetti in cui è incisa la transitorietà» . Dunque l’incertezza e l’instabilità (la guerra alle porte di casa? un pericolo oscuro e incombente?) tipiche dei nostri perigliosi tempi in cui «gli artisti hanno un’identità poliedrica e sono diventati migranti consapevoli e turisti della cultura» . Ancora Baratta: «La Biennale è come una macchina del vento. Ogni due anni scuote la foresta, scopre verità nascoste. La Biennale è un grande pellegrinaggio dove nelle opere degli artisti e nel lavoro dei curatori si incontrano le voci del mondo che ci parlano del loro e del nostro futuro» . Ci sarà anche una vasta attività Educational per scuole di ogni ordine e grado. Poi seminari e incontri («Biennale sessions» , «Meetings on art» ). Molti artisti giovani accanto a «classici contemporanei» come Llyn Foulkes, Luigi Ghirri, Jack Goldstein, Gedewon, Jeanne Natalie Wintsch. Quattro artisti saranno impegnati nella creazione di «parapadiglioni a carattere architettonico e sculturale» (Monika Sosnowska, Franz West, Song Dong e Oscar Tuazon). Undici altri autori hanno creato nuove opere espressamente per Venezia. Illuminati dalla poesia. Non certo dai fondi statali italiani per la cultura.

09 Mar

Cézanne gioca a carte scoperte

Scritto da Ugo Nespolo – la Stampa

Al Met di New York nelle sue tele la ribellione all’impressionismo e all’arte come mercato

Ormai avvezzo a esser sommerso e quasi asfissiato da un giornaliero profluvio di mostre-monstre, vernici, fiere dell’arte, di quelle in cui si bada più alla quantità pur-che-sia e si è indifferenti all’odierna fame e sete di qualità e bellezza, precipito in una sorta di wonderland nel visitare in una tersa e gelida serata al Metropolitan Museum di New York la mostra «I giocatori di carte di Cézanne»
Perla di esposizione concepita e realizzata in collaborazione con la Courtauld Gallery di Londra questa mostra riunisce e mette a confronto per la prima volta la serie di dipinti che hanno per tema i Giocatori di Carte con un vasto e raro corredo di bozzetti e tele indispensabili per capirne il percorso e la portata creativa. Sono opere dipinte negli anni che vanno dal 1893 al 1896, gli ultimi della vita dell’artista (muore nel 1906) in cui concepisce e realizza un nucleo di tele che a mio parere posson essere considerate il manifesto teorico e pratico dell’antimpressionismo.
Volontariamente isolato ad Aix-enProvence Cézanne sembra mettere in atto, giorno dopo giorno, con la lentezza esecutiva che gli è propria, la più profonda e concreta reazione all’appiattimento e alla superficialità dei trionfanti ideali impressionisti e postimpressionisti. Vive silenziosamente la sua marginalità e proprio il ciclo di tele di questa mostra spiegano con chiarezza la chiave del suo clamoroso insuccesso commerciale.
Si può bene intuire come debba aver considerato i personaggi di George Seurat nient’altro che statiche sagome di cartone alla Grande Jatte e che tutte le credenze parascientifiche del tempo che portano al pointillisme non possano prendere il posto degli ideali di solidità, volume, meditazione, spazio monumentale, che gli stavano a cuore. Ad analizzare da vicino il contrasto di colori caldo-freddo, le bordature brune e nere tracciate con pennellate solide e sicure, si può quasi comprendere il suo sogno di rifare Poussin sulla natura e di riportare l’Impressionismo tra le braccia dei Maestri.
Merleau-Ponty chiarisce bene questo concetto dicendo che «…non serve a nulla opporre qui la distinzione di anima e corpo, di pensiero e visione dal momento che Cézanne ritorna all’esperienza primordiale…» e che attraverso l’uso dei colori caldi e del nero mostra come egli intenda rappresentare gli oggetti e i personaggi e «… ritrovarli dietro l’atmosfera». Mi sembra che questi modelli di giocatori-contadini siano come illuminati da dentro e che la loro fisicità riverberi una sorta di calma e luce interiore. Pare questa essere quella stessa calma che doveva guidare quest’uomo schivo ed appartato che detestava persino il contatto fisico e che aveva tramutato in odio e delusione la fraterna e sconfinata amicizia con Émile Zola reo di averlo raffigurato nel suo romanzo L’Oeuvre nei panni del pittore fallito Claude Lantier suicida di fronte alla rivelata incapacità di portare a termine un quadro.
La mostra m’illumina sulle ragioni dell’incomprensione e dell’insuccesso di un artista da considerare tra i maggiori della tradizione moderna e che si pone allo snodo tra l’eclissi dell’impressionismo dilagante e modaiolo e il nascente cubismo picassiano pronto a far propria quella lezione di meditata tridimensionalità e di nuovo spazio prospettico. New York è proprio il luogo adatto per ripensare all’ostracismo che ancora in tempi non lontani Clement Greenberg, il massimo critico statunitense e paladino della ricostruzione delle teorie artistiche fondate sullo storicismo-genetico, riservava a Paul Cézanne considerandolo un vero ostacolo al suo pensiero che voleva la storia dell’arte quasi un percorso lineare verso la conquista della planéité , quella sorta di smaterializzazione progressiva adatta e adattata a glorificare tra l’altro il trionfo non tutto giustificato dell’espressionismo astratto made in Usa.
La solidità «ontologica» di questi giocatori si erge davvero come un masso non valicabile sul glaciale binario di una forzata lettura storico-artistica lineare ed univoca. In queste sale animate da personaggi di masaccesca solidità non posso fare a meno di pensare all’epoca nostra che vive l’arbitrio e la pochezza del «tutto è arte» in quello che si è ormai avvezzi considerare un clima di noiosa avanzata postmodernità che produce per lo più un’arte «ininfluente», lontana dal sociale e del tutto schiava del mercato sempre pilotato.
Se l’opera di Monet Impression era servita a Louis Leroy a definire un movimento liberatorio lentamente scivolato nel superficiale e nel ripetitivo, la «cosalità» di Paul Cézanne è quella di dipingere «… come se non si fosse mai dipinto». Non si fatica a credere che dopo D.H. Lawrence la sua opera sconvolga e muti per sempre in profondo la poesia di R. M. Rilke. Elegie Duinesi eSonetti ad Orfeo ne mostreranno i segni ancora vent’anni dopo il 1907.

09 Mar

La sfida di Pinault alla Biennale

Scritto da Paolo Conti – Corriere della Sera

Una riflessione su nomadismo e meticciato a Palazzo Grassi
 «Il Mondo vi appartiene» . Che slogan luminoso e ottimista, di questi tempi in cui la guerra è veramente alle porte di casa nostra e soprattutto si affaccia sul Mediterraneo. Eppure la frase tanto piena di speranza, e diretta alle nuove generazioni, viene dalla Signora dell’Adriatico, avamposto proprio del Mediterraneo, ovvero dalla Serenissima. Tra poche settimane Venezia riprenderà il suo ruolo di capitale mondiale dell’arte contemporanea. Tornerà la Biennale di Venezia (per venerdì è atteso l’annuncio ufficiale della lista degli artisti da parte del presidente Paolo Baratta e della curatrice Bice Curiger per la rassegna «ILLUMInazioni» ). E l’universo di François Pinault, grande industriale e altrettanto grande collezionista di arte contemporanea, metterà in tavola le sue carte tra Punta della Dogana, dove il 10 aprile aprirà la mostra «Elogio del dubbio» , e Palazzo Grassi, marchio doc di mostre eccellenti dai tempi in cui la padrona di casa era la Fiat. La mostra che aprirà il 2 giugno a Palazzo Grassi, per chiudere il 31 dicembre (tutti i giorni, dalle ore 10 alle ore 19, tranne il martedì), sarà «una riflessione sui ritmi vertiginosi degli sconvolgimenti del mondo moderno, nutriti dal nomadismo, dal cosmopolitismo e dal meticciato» , come si legge nella presentazione. Lo staff di Pinault per Punta della Dogana e Palazzo Grassi, coordinato dal nuovo direttore Martin Bethenod e dalla curatrice, Caroline Bourgeois, è al lavoro a pienissimo ritmo. Non c’è una competizione dichiarata con la Biennale (Bethenod parla di «grande dinamismo» dell’istituzione culturale italiana che fa di Venezia «una piattaforma privilegiata dell’arte contemporanea» ). Ma dal momento in cui Pinault ha deciso di «mettersi in mostra» a Venezia con due straordinari spazi, i mesi della Biennale rappresentano un obbligo culturale per lui. Se non una sfida. Ed eccoci a «Il mondo vi appartiene» . Annuncia proprio Bethenod, che ha ormai chiuso la sua casa parigina per diventare veneziano a tutti gli effetti: «”Il Mondo vi appartiene”è un punto di vista profondamente rinnovato sulla Collezione François Pinault. Più della metà degli artisti sono esposti per la prima volta nel contesto della collezione, un terzo ha meno di 40 anni. Questa nuova generazione è estremamente mobile: la maggior parte degli artisti presenti in mostra non vive nel suo Paese o nel continente dove è nata» . Torna il concetto di nomadismo, del cosmopolitismo, del meticciato annunciato prima. E quindi il direttore dell’impresa culturale italiana di Pinault arriva a una deduzione: «Tutto ciò ci testimonia che il mondo non è più organizzato attorno a un unico centro, come era fino alla fine del XX secolo, ma a numerosi centri di creazione, che comunicano tra di loro» . Una questione non secondaria mette in discussione la stessa definizione e concezione di «arte nazionale» così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento e che ha portato, tanto per fare un esempio, alla collocazione dei padiglioni nazionali nei Giardini della Biennale. E alla restaurazione del Padiglione Italia (quest’anno affidato a Vittorio Sgarbi). Aggiunge Bethenod: «In un mondo così tanto spesso minacciato dalla contrattura e dal ripiegamento su se stessi, la mostra tenta un approccio al tema dell’identità che non si fonda sulla rivendicazione di una nazionalità o sull’affermazione di un’origine, ma sul modo di costruire la relazione con l’altro» . Come scrive nella presentazione la curatrice Bourgeois ecco «un meticciato che va dalla tortura mediatizzata con i dipinti di Ahmed Alsoudani, al persistere della perplessità ingenua e spontanea negli uomini con la scultura poetica di Friedrich Kunath, alla monumentalità fuori moda delle grandi figure comuniste con i quadri di Zhang Huan, dal denudamento della ricca cultura africana e afroamericana con El Anatsui e David Hammons, alla minaccia terrorista con l’opera di Huang Yong Ping, all’apocalisse annunciatrice di un mondo post-umano con Loris Gréaud e Matthew Day Jackson» . Trentanove artisti molto giovani e in gran parte esordienti sulle scene di Pinault. Ma tra loro non mancano nomi molto noti, ormai parte della storia dell’arte dei nostri tempi: Alighiero Boetti o Giuseppe Penone. E poi Maurizio Cattelan, Jeff Koons, David Hammons, Francesco Vezzoli e Joana Vasconcelos, autrice alla Biennale 2005 del monumentale lampadario composto da 14.000 assorbenti femminili interni OB. Tra le mille possibili suggestioni, una in particolare richiama i nostri tempi drammatici. Farhad Moshiri, classe 1962, nascita iraniana a Shiraz, vive e lavora tra Teheran e Parigi. Presenta una scritta multicolore su un muro in lieve, elegantissimo, rassicurante corsivo: Life is beautiful. Poi ti avvicini, guardi e scopri che tutto è formato da una serie di coltelli di diversa foggia e colore piantati sulla parete. La vita può essere meravigliosa. Ma a che prezzo.

01 Mar

Il fascino (bulimico) dei collezionisti borghesi

Scritto da PHILIPPE DAVERIO – CORRIERE DELLA SERA

Robert Sterling Clark, classe 1877, era figlio di famiglia, buona s’intende, il che per l’America d’allora voleva dire molto ricca. Discendeva per via materna da Isaac Merrit Singer, inventore dell’inventabile ma soprattutto della macchina da cucire con la quale fece una tale fortuna che a sessant’anni, dopo aver avuto 24 figli, se n’andò a vivere in Inghilterra come un lord in pensione. Viveva già a Parigi da dieci anni per evitare la guerra civile americana e aveva optato per l’Inghilterra in modo da evitare i fastidi della guerra franco-prussiana. Sua figlia Winnaretta sposò comunque francese, prima il principe Louis de Scey-Montbéliard, matrimonio immediatamente annullato per consentire il secondo matrimonio col secondo principe, un simpatico sessantenne, gay e melomane, Edmond de Polignac, che ebbe la buona idea di lasciarla presto vedova: lei divenne la patronessa della musica parigina, da Debussy a Poulenc, passando da Satie a Savinio. Anche Robert Clark, giovin nipote passò da Parigi prima di laurearsi a Yale. Poi girò l’Oriente, da militare e da esploratore, ritornò a Parigi e sposò una bella attrice. Assieme iniziarono a collezionare, l’antico e il moderno, Piero della Francesca e gli impressionisti. Non andava più di tanto d’accordo coi fratelli ai quali già lo legava una comune fondazione filantropica; fece la sua propria fondazione che oggi è uno dei maggiori musei americani della East Coast, nel Massachusetts. Il primo quadro, un bel Renoir, lo comperò forse ancora da scapolo nel 1916, quando anche Gertrude Stein comperava con passione. Non molto dissimile la sua storia da quella dei coniugi Phillips a Washington. Duncan Phillips, classe 1886, erede di banchieri e magnati dell’acciaio, collezionò negli stessi anni gli stessi impressionisti e la collezione è oggi uno dei gioielli della capitale americana. Tutto dovuto al pensiero di Francis Scott Fitzgerald per il quale i ricchi americani, quelli d’allora beninteso, sono necessariamente intelligenti e belli? Non affatto: anche il museo Puskin a Mosca e una parte delle raccolte moderne dell’Hermitage a San Pietroburgo sono debitori d’un collezionismo borghese altrettanto illuminato, quello dei due mercanti imprenditori Sergej Shchukin e Ivan Morozov. Nelle loro case allegre e lussuose, con la Danse di Matisse appesa sugli scaloni, suonava Skrjabin. Uguali gli americani e i russi, separati solo dalla catastrofe rivoluzionaria? Sarebbe errore gravissimo di analisi storica, perché negli stessi anni un umile collezionista di Basilea, Rudolph Staechelin, mise assieme un’analoga collezione, oggi fondazione, e contemporaneamente lo facevano a Winterthur i Barbier Muller, forse ancor con maggior genialità perché mescolarono ai primi Kandinskij le raccolte d’oggetti antropologici, il tutto raccolto oggi a Ginevra, in rue Jean Calvin. Il fascino discreto della borghesia. Alla quale borghesia non erano estranei gli italiani se il giovane milanese Riccardo Jucker, svizzero di nonno e tessile come Morozov, se ne andava a Parigi nel 1918 per evitare i guai postbellici italiani a comperare i quadri cubisti di Picasso, come poco dopo avrebbe fatto De Angeli Frua, anche lui tessile ma pure patrono della nascita della Galleria del Milione a Milano e di quella di Ernst Beyeler a Basilea, oggi mirabile fondazione. Negli stessi anni il giovane Gianni Mattioli, commerciante tessile, iniziava a Milano una raccolta che oggi è documento formidabile: fece i suoi primi acquisti nel 1916 nelle mostre di palazzo Cova. È intrigante l’intelligenza artistica del protagonismo storico nei momenti di pulsione della storia. Il giovane generale Bonaparte, non particolarmente affinato ancora quando conquistò ventiseienne Milano nel 1796, scopre il fascino di Andrea Appiani e da lui si fa ritrarre. Il cardinal Federico Borromeo scopre subito il talento di Caravaggio, che come persona fisica non sembra affatto gradire, e gli acquista la Canestra oggi all’Ambrosiana. Così farà pochi anni dopo il nipote di papa Paolo V, un innegabile parvenu, il cardinal Scipione Borghese che capirà tutto del fascino caravaggesco e delle glorie scultoree di Bernini. I ricchi sono intelligenti, intuitivi, premonitori, ma solo talvolta. Oggi appaiono meno arguti e meno acuti, se aspettano i risultati delle aste per tuffarsi negli acquisti di beni artistici già conclamati e cari. Colpa loro o colpa dell’arte attuale?