23 Feb

Ma a Milano prevalsero i colori del sociale

Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

Il dramma dei vinti dell’industrializzazione nei dipinti degli istituti di carità

Come succede in tutti i movimenti, anche nel divisionismo convivono sensibilità differenti, se non addirittura agli antipodi. Una sezione della mostra mette in evidenza una corrente specifica, quella del «divisionismo ideologico» (chiamato anche divisionismo socialista) caratterizzato cioè dall’impegno umanitario e sociale a differenza del «divisionismo ideista» che si connota invece per i contenuti simbolisti universali e la spiritualità panteista e il cui capofila fu Giovanni Segantini. Fra gli artisti più impegnati appartenenti al divisionismo socialista va invece nominato l’alessandrino Angelo Morbelli che a Milano, capitale dell’esperienza divisionista, realizzò una serie di tele straordinarie dedicate al Pio Albergo Trivulzio, l’istituzione milanese (a tutti nota perché l’arresto del suo presidente Mario Chiesa diede avvio a Mani Pulite esattamente venti anni fa) dedita all’assistenza degli anziani poveri. Morbelli, che iniziò a interessarsi agli ospiti del ricovero sin dagli inizi degli anni Ottanta, ancora prima di aderire al divisionismo, ottenne persino uno spazio in cui lavorare dentro l’istituto che era stato voluto dal principe Trivulzio e che faceva parte di una rete di assistenza a orfani, senza lavoro, vecchi, malati, che costituiva un fenomeno peculiare della milanesità.
A Milano, dove il lavoro femminile era superiore a quello delle altre città, nel decennio 1850-60 i neonati abbandonati nella ruota del brefotrofio di Santa Caterina salirono a ben 4.384 contro i 3.300 del decennio precedente. Una piaga in parte alleviata dai Martinitt e dalle Stelline, i due istituti che accoglievano rispettivamente gli orfani e le orfane. Le fabbriche come la manifattura tabacchi, le ceramiche Richard o la fabbrica di bottoni Binda, nate a partire dagli anni Quaranta, erano di dimensioni ancora ridotte rispetto agli stabilimenti del Nord Europa ma segnarono l’inizio della Milano industriale. Alla vigilia dell’unità d’Italia erano impiegati in piccole manifatture tremila lavoratori dell’industria serica cui si aggiungevano altri mille nell’indotto. Poi c’erano i duemila addetti alla fabbricazione delle carrozze, piccole officine che trovano sistemazione spesso nei sottoscala o nei cortili delle case; i novecento delle oreficerie e bigiotterie; i settecento della concia e lavorazione delle pelli; i duecentocinquanta dediti a cappelli di feltro e cascami e anche mille lavoratori nelle tipografie. Alcune donne integravano il bilancio familiare lavorando a domicilio come ricamatrici, rammendatrici, guantaie, modiste e per loro era sempre più difficile occuparsi dei molti bambini che partorivano. A questi lavoratori si aggiungevano quelli stagionali, attratti in città da occasioni di lavoro temporaneo (muratori, facchini) e che, quando tornavano disoccupati, andavano a ingrossare le fila di coloro che vivevano ai margini: anziani, deboli, malati, menomati fisicamente.
A metà Ottocento l’Ospedale Maggiore, la più grande istituzione di assistenza milanese, dava ricovero giornaliero a oltre duemila persone, molte delle quali non erano malate ma indigenti senza cibo e senza un tetto. Nel 1906 furono censite a Milano circa cinquecento istituzioni dedite alla beneficenza con un patrimonio di oltre trecento milioni di lire. Rispetto alle istituzioni di beneficenza di altre città, la loro peculiarità era quella di ricordare i benefattori attraverso dipinti o busti: non tanto ritratti celebrativi ma commissionati per ringraziamento e come modelli di carità da emulare. Addirittura i maggiori istituti di carità avevano individuato alcuni pittori con i quali instaurare un rapporto privilegiato per la committenza dei ritratti dei benefattori. Con gli anni hanno accumulato centinaia di opere diventate vere e proprie quadrerie anche grazie a lasciti di intere collezioni.
In questo clima, nel 1895 Pellizza da Volpedo, l’autore de «Il quarto stato» conservato al museo del Novecento di Milano, scriveva all’amico Morbelli: «Sento che ora non è più l’epoca di fare arte per l’arte ma dell’arte per l’umanità».

23 Feb

Divisionismo. La scienza della percezione

Scritto da Melisa Garzonio – Corriere della Sera

Luci della modernità Così l’arte trasfigurava sulla tela i progressi ottenuti in laboratorio

L’ effetto sirena causato dalla bruna signora che incede sdegnosa sollevando un lembo del cangiante abito bianco (con piccoli arabeschi gialli) è forse stato studiato a tavolino? La locandina della mostra «Il Divisionismo. La luce del moderno», che campeggia sotto i portici di Piazza Vittorio Emanuele II, a Rovigo è più guardata dei cartelloni degli ultimi film di Spielberg e Scorsese, campioni al botteghino della stagione. Sorridono soddisfatti Francesca Cagianelli e Dario Matteoni, negli ultimi anni curatori a quattro mani al Palazzo Roverella di visitatissime mostre sui capricci estetizzanti di déco e fin de siècle, adesso artefici di questa rappresentazione sulla «pittura divisa», che in quanto a fascinazione ha proprio l’aria di superarle tutte.
«Vorrà dire che grazie al “Ritratto all’aperto” di Giacomo Balla i visitatori verranno a vedere la mostra molto ben disposti» gongola Cagianelli, che ci tiene però a sottolineare come gli intenti dei curatori vadano ben oltre la portata emotiva dei dipinti icona, puntando piuttosto su una revisione storiografica del movimento pittorico che tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, quasi un naturale prolungamento, in area lombarda, della bohème scapigliata, fece da tramite tra il bello gratificante del verismo e l’antigrazioso dell’avanguardia futurista. Aggiunge Matteoni: «Abbiamo voluto ribaltare l’idea di un asse privilegiato del divisionismo tra Milano e Torino, considerate, con esagerata enfasi, le due città più vitali del Settentrione».
È vero che il piemontese Pellizza da Volpedo in una lettera del 1896 indirizzata all’amico Plinio Nomellini scriveva: «L’anno prossimo avremo la seconda Triennale milanese, fa di non mancare all’appello. Milano tanto quanto Torino, e forse più, è terreno adatto alle nostre lotte». Avrà avuto anche ragione il Pellizza, la cui adesione alla fase visionaria del divisionismo è celebrata nel portentoso trittico «L’amore nella vita», altro pezzo forte dell’esposizione. Ma a Rovigo si scoprono cose nuove, per esempio inedite geografie tra Liguria e Toscana, trait-d’union Plinio Nomellini, artista livornese dalla tavolozza focosa, che dal 1890 viveva a Genova, e dunque funge da filtro tra la pittura di macchia alla Fattori e la pennellata filamentosa dei pittori di costa, da Benvenuto Benvenuti per le smaltate marine livornesi, a Rubaldo Merello e il gallese Llewelyn Lloyd per i rossi tramonti in Riviera e la raccolta dell’uva alle Cinque Terre. Ancora, in mostra si dà voce a tanti bravi artisti finora considerati solo dei semplici epigoni rispetto ai maestri del movimento, come il veneziano Vittore Zanetti-Zilla, il milanese Ludovico Cavalieri, e due pittori «della grazia infantile e della bellezza muliebre» come Camillo Innocenti e Arturo Noci.
«Il lungo tempo del divisionismo», argomentato in catalogo da saggi di Anna Maria Damigella, Sergio Rebora e Nicoletta Colombo, comincia con un omaggio al «padre» della tecnica divisa, Vittore Grubicy De Dragon, eccentrico erede di una famiglia aristocratica magiara trasferita nel Lombardo Veneto, un tempo ricca ma ormai debole e spiantata. Dotato di carisma e phisique du rôle, estro pittorico e sesto senso nel riconoscere i talenti, appassionato di bella musica, da Ravel a Debussy, da Satie a Gounod, e instancabile globetrotter, Grubicy aveva colto il nascere dei nuovi fermenti durante i frequenti viaggi in Belgio, Olanda, Francia, e si era fatto una cultura su libri e riviste straniere. Di sicuro vide Seurat e studiò la tecnica francese del Pointillisme, importando in Italia la querelle mai risolta sul debito dei nostri pittori divisionisti con i cugini francesi.
Nella sua biblioteca, oggi conservata al Mart di Rovereto, compaiono opere capitali di Jehan Georges Vibert: «La science de la peinture», sia nell’edizione francese che in quella italiana tradotta da Gaetano Previati e pubblicata su commissione di Grubicy nel 1893. Previati, divisionista dalle forti sfumature simboliste, svolse il ruolo di teorico del gruppo («La tecnica della pittura», 1905; i «Principi scientifici del divisionismo», 1906). Sono gli anni in cui la percezione luminosa si modifica e si allarga a nuove sfere sociali. Nelle città le luci colorano i grandi magazzini, le vetrine, brillano sgargianti nelle insegne sui muri. Grubicy intercetta i pittori del nuovo e li lega in un rapporto d’esclusività con la galleria milanese che dirige col fratello Alberto. I due però non vanno d’accordo. Rotto il sodalizio, Vittore prende colori e cavalletto e va a fare il pittore sul Lago Maggiore. Quasi tutti i suoi protetti diventeranno famosi.
Melisa Garzonio