17 Gen

QUEL CHE RESTA DELL’URSS È UNA MOSTRA

17Genn2014

Scritto da BRUNELLA TORRESIN, la Repubblica

“Il piedistallo vuoto” al Museo Civico Archeologico

BOLOGNA. Con la vecchia divisa che un custode scomparso ha abbandonato sulla sedia, Roman Ondak invita al silenzio, “Silent please”. Enter the Ghost, exit the Ghost, avverte poco lontano la scritta al neon di Armando Lulaj. Attinti all’immenso corpo comunista fatto a pezzi negli anni tra la caduta del Muro e la dissoluzione del-l’Urss, sono qui riuniti brandelli visivi, documenti, sguardi, opere d’arte, artisti. E non è certo per caso che il curatore Marco Scotini abbia scelto le sale di un museo archeologico, il civico di Bologna. Ma Il piedistallo vuoto. Fantasmi dal-l’Est Europa, che prende forma nell’alveo di Artefiera, inaugurandosi il 24 gennaio per poi proseguire oltre la mostra mercato, non è un paesaggio di rovine post sovietiche, né di reperti.

Lo si può immaginare, piuttosto, come una teoria di mutevoli stanze, infestate da spettri e altre invisibili presenze, o visibili assenze. Le abitano una quarantina di artisti, alcuni sono più che noti (come Marina Abramovic, Emilia e Ilya Kabakov, Adrian Paci, Pawel Althamer), altri meno; appartengono a generazioni diverse, e il loro lavoro si è sviluppato negli anni precedenti e successivi la caduta del blocco sovietico, nei paesi oltre la Cortina di ferro. Le opere esposte a Bologna provengono tutte da grandi collezioni private – Sandretto Re Rebaudengo e Maramotti, Trussardi e Enea Righi, Unicredit e La Gaia di Torino – e testimoniano della loro indubbia lungimiranza. «Alla fine degli anni Novanta – racconta Scotini – ero io che viaggiavo da Mosca a Tashkent, alla ricerca di artisti. Ho voluto impormi la costrizione di creare una mostra solo con le opere presenti in Italia. Ed è stato sorprendente, perché alcune grandi collezioni possiedono pezzi davvero importanti».

Raccolti non solo dopo la caduta del Muro, ma anche prima, tra le avanguardie degli anni Settanta. È una prospettiva privilegiata per interrogarsi, scoprire e svelare, senza indulgere nella nostalgia di un modello collassato. Quel piedistallo vuoto, evocato nel titolo, testimonia certo la rimozione iconoclasta di un passato, l’incompletezza di un presente smarrito, ma anche l’attesa, o il presentimento, di ciò che del passato prenderà il posto.

«Qualcosa che ritorna, ma non c’è ancora stato», sintetizza il curatore. L’artista kazako Yerdossim Meldibekov lo traduce in immagini accostando in un dittico (Family Album, 2008) la fotografia ricordo del monumento a Lenin (prima) a quella di un monumento nazionalistico- religioso (dopo), senza che muti l’atteggiamento formale delle figure umane ritratte, sorridenti e fiduciose.

Il lituano Deimantas Narkevicius, invece, ha montato a ritroso il video del reale smantellamento di una statua di Lenin, di modo che la fine coincide con l’apparente innalzamento del simbolo (Once in the XX Century, 2004). Vyacheslav Akhunov, scrittore ed artista, all’epoca trentenne, ha iniziato a censire piedistalli in diverse città sovietiche fin dal 1978, disegnandoli.

Così, nell’itinerario dei “Fantasmi dell’Est”, a una sezione dedicata a “Il teatro del gesti” e ad artisti performativi come Jiri Kovanda o il più giovane Jaan Tomik, segue “L’archeologia delle cose”, dove sono predominanti la scultura e l’installazione, anche di grandi dimensioni come I trust the liar, with pleasure, tea di Thea Djordjadze (2011) o i cento oggetti ordinatamente composti da Katerina Seda in Over and over (2008), i mobili del tinello accatastati da Emilia e Ilya Kabakov (1989) o il Cosmorama di Robert Kusmirowski (2010). Senza rimpianti né illusioni, gli occhi aperti sull’ignoto, in attesa. Si visita fino al 16 marzo.

25 Ott

L’Avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente. Kandinsky, Malevič, Filonov, Gončarova.

25OTT2013

Scritto da Redazione

L’Avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente.
Kandinsky, Malevič, Filonov, Gončarova.
27 settembre 2013-19 gennaio 2014

Organizzazione: Fondazione Palazzo Strozzi
A cura di: John E. Bowlt, Nicoletta Misler, Evgenija Petrova

La mostra, attraverso la scoperta dei capolavori delle collezioni russe dell’Avanguardia, presenta una ricchissima esposizione di opere mai viste in Italia unendo spiritualità e antropologia, filosofia e sciamanesimo in un viaggio iniziatico verso una nuova frontiera artistica.
Una straordinaria rassegna internazionale che attraverso le opere dei grandi artisti del primo ’900 conduce il visitatore a percorrere un viaggio straordinario, in una terra di frontiera ai confini del mondo, tra ghiacci e deserti sterminati. L’arte russa infatti ha potuto attingere più di ogni altra a un Oriente dalle molteplici sfaccettature che si estende geograficamente dalle steppe dell’Asia all’India, dalla Cina al Giappone.

L’esposizione sviluppa attraverso 130 opere (79 dipinti, acquerelli e disegni; 15 sculture e 36 tra oggetti del repertorio etnoantropologico e incisioni popolari) suddivise in 11 sezioni, la complessa relazione fra l’arte russa e l’Oriente, attraverso pittori famosissimi come Wassily Kandinsky, Kazimir Malevič, Natal’ja Gončarova, Michail Larionov, Léon Bakst, Alexandre Benois, Pavel Filonov, che influenzarono lo sviluppo dell’arte moderna ormai un secolo fa. Artisti profondamente consapevoli dell’importanza dell’Oriente, che contribuirono a un ricco dibattito culturale che lasciò un segno profondo e permanente sulle teorie estetiche del tempo come sulle opere realizzate in quel periodo.
Una rassegna che mette in relazione gli esponenti principali dell’Avanguardia russa con altri artisti dell’epoca, altrettanto significativi benché forse meno noti, come Nikolai Kalmakov, Sergej Konenkov e Vasilij Vatagin, la maggior parte delle cui opere sono esposte in Occidente per la prima volta.

Scarica tutti i testi della mostra!

Informazioni

Tel. +39 055 2645155

Orari mostra

Tutti i giorni (inclusi i festivi) 9.00-20.00
Giovedì 9.00-23.00
Accesso in mostra consentito fino a un’ora prima dell’orario di chiusura.

22 Ott

Malevic e gli altri allo Stedeljik

22OTT2013

Scritto da il manifesto

MOSTRE
Sono trascorsi novant’anni dalla prima mostra olandese sull’arte russa del XIX e XX secolo – «De eerste Russische Kunsttentoonstelling», questo era il titolo – organizzata presso lo Stedeljik Museum, nel 1923: il museo divenne il primo in cui fu possibile ammirare il Suprematismo di Malevic, fuori dai confini russi.
Ora lo Stedelijk di Amsterdam cerca di replicare quella leggendaria rassegna, presentando, fino al 2 febbraio, «Kazimir Malevic e l’avanguardia russa», la più grande esposizione degli ultimi anni incentrata su uno dei principali fondatori dell’arte astratta (poi, la mostra andrà alla Tate di Londra e alla Bundeskunsthalle di Bonn). Al di fuori della Russia, infatti, è l’olandese Stedelijk a possedere la più grande collezione di opere del padre del Suprematismo. Per la prima volta, la raccolta del museo sarà esposta insieme alle straordinarie collezioni di Nikolai Khardzhiev (affidata, tramite la fondazione Khardziev, allo Stedelijk stesso) e di George Costakis (proveniente dal Museo nazionale di arte contemporanea di Salonicco). I due sono stati i primi collezionisti dell’avanguardia russa, anche in tempi in cui l’arte astratta era vietata nell’Unione Sovietica.
Malevic viene letto e proposto insieme a diversi compagni d’avventura, in un omaggio all’avanguardia russa del primo Novecento, con opere, fra gli altri, di Marc Chagall, Ilia Chashnik, Boris Ender, Ksenia Ender, Maria Ender, Yurii Ender, Natalia Goncharova, Vasilij Kandinskij, Ivan Kyun, Mikhail Larionov, El Lissitzky, Lyubov Popova, Ivan Puni, Alexander Rodchenko.
22 Ago

CAPITALISMO ARTISTA

22Ago2013

Scritto da FABIO GAMBARO, la Repubblica

“L’arte non è più bellezza, ma ricerca di sensazioni: così il mercato diffonde una nuova percezione del mondo”. Intervista al sociologo francese

Lipovetsky: “Ormai siamo tutti consumatori estetici”

PARIGI. «Oggi, il vettore dell’estetizzazione del mondo non è più l’arte, ma il consumo ». Per Gilles Lipovetsky, il trionfo del «capitalismo artista», che ha fatto dell’estetica uno strumento essenziale della propria espansione, sta trasformando radicalmente la società e la percezione stessa dell’arte. Per descrivere e analizzare questo fenomeno che ogni giorno interagisce con le nostre vite, il celebre sociologo francese ha scritto, insieme a Jean Serroy, un vasto saggio intitolato L’esthétisation du monde (Gallimard, pagg. 490, 23,50 euro), nel quale sottolinea il carattere ambivalente e contraddittorio di questa ennesima metamorfosi del capitalismo, difendendone però la forza innovativa. Per lui infatti il capitalismo artista diffonde una crescente attenzione allo stile e alla bellezza, facendo appello al gusto e alla sensibilità degli individui. All’homo oeconomicus si è affiancato così l’homo aestheticus.

«Il capitalismo artista è arrivato a maturità, portando a termine una storia cominciata fin dalla metà del XIX secolo», spiega lo studioso, già autore di molti saggi, tra cui L’era del vuoto, Una felicità paradossale e La cultura-mondo.

«L’industria del consumo ha ormai incorporano in maniera sistematica il parametro dell’estetica. È un fenomeno totale. Nessun oggetto sfugge a tale modello, perfino i più banali. Questo capitalismo di seduzione contribuisce a rendere più sensibile all’estetica tutta la società. E la sua dimensione più creativa ed edonistica coesiste — non senza contraddizioni e conflitti — con la tradizionale dimensione razionale e contabile del capitalismo. La lettura marxiana di un capitalismo unicamente rivolto al profitto e capace solo di sfigurare il mondo va secondo me aggiornata ».

Nel mondo dei consumi l’estetica è comunque al servizio del profitto. Non è in contraddizione con una visione disinteressata dell’arte?

«Noi, in effetti, siamo ancora sensibili a una dimensione disinteressata, pura e romantica dell’arte. Nel capitalismo artista accade esattamente il contrario. L’economia e l’estetica danno luogo a un sistema trans-estetico al cui centro, più che la ricerca della bellezza, agisce la ricerca di sensazioni. Il capitalismo artista s’interessa certo alle forme, ma soprattutto cerca di produrre emozioni. Indifferente al sublime, non mira alla verità dell’arte né tanto meno sogna opere immortali ed eterne. La sua è un’estetica in continua trasformazione».

Questa massiccia presenza estetica nel mercato di consumo quali conseguenze ha prodotto nel mondo dell’arte?

«La cultura del denaro e del successo ha evidentemente influenzato un mondo artistico dove ormai è venuta del tutto meno la tradizionale opposizione tra arte e mercato. Ma va detto che il capitalismo ha solo accompagnato un’evoluzione già in corso autonomamente all’interno del mondo artistico. Se infatti, ai tempi di Baudelaire, l’artista vive per l’arte e non per il denaro, difendendo una visione romantica della sensibilità artistica, già ai tempi delle avanguardie novecentesche l’arte si è allontanata dall’estetica tradizionale, disinteressandosi del bello. L’arte è diventata un’esperienza. Con Warhol, l’artista rinuncia alla boheme e si trasforma in un imprenditore che fa affari e per il quale gli affari sono arte. L’arte è diventata così un settore del mercato. Questa evoluzione è avvenuta parallelamente all’esplosione della società dei consumi, che evidentemente l’ha accentuata e accelerata».

Per alcuni critici la dimensione estetica dei prodotti di consumo sarebbe solo una vasta opera illusionistica. Che ne pensa?

«È vero che, come diceva Raymond Loewy tra le due guerre, il brutto si vende male. I prodotti di consumo usano quindi l’estetica della seduzione per imporsi sul mercato. Ma il capitalismo artista non produce solo illusioni. In realtà, contribuisce a cambiare il mondo e soprattutto le persone. Il capitalismo artista ha cambiato le nostre aspirazioni, il nostro sguardo sulla realtà e i nostri comportamenti.

Ci ha trasformato interiormente, facendo di noi dei consumatori estetici. Una volta la bellezza era un’esperienza riservata ai ricchi. Oggi tutti possiedono un senso estetico e desiderano una relazione estetica con la realtà. La fruizione artistica si è democratizzata, dando luogo a un edonismo diffuso».

Non è una visione troppo ottimistica?

«So bene che alcune forme d’arte continuano a essere appannaggio di un pubblico privilegiato. L’opera lirica si rivolge ancora a poche persone ed è vero che l’arte contemporanea ha successo solo quando è molto semplice, come ad esempio quella di Jeff Koons. Va però riconosciuto che altre forme d’arte sono ormai molto diffuse, penso al cinema, alla musica, alla street art. Da questo punto di vista la democratizzazione dell’arte è una realtà indiscutibile. Ognuno fa le proprie esperienze estetiche, anche minori. E in ciascuno vive un piccolo desiderio artistico. Ascoltare Vivaldi non è certo la stessa cosa che ascoltare Withney Houston, ma l’emozione estetica può essere la stessa. Sul piano delle ricezione non è c’è gerarchia. L’esperienza estetica può essere intensa e sconvolgente sia con un’opera raffinata che con un’opera molto popolare. Certo, non tutti leggeranno l’Iliade, ma ciò che conta è la progressiva diffusione delle esperienze estetiche».

Lei però nel libro sottolinea anche i limiti di questa evoluzione…

«In effetti, nonostante la presenza diffusa dell’estetica nel capitalismo, il mondo non è diventato più bello e la gente non è più felice. La crescente diffusione del sentimento estetico ci rende tutti più esigenti e quindi più critici. Siamo diventati feroci, dei veri e propri terroristi del giudizio critico nei confronti degli altri. Tutto ciò evidentemente produce angoscia negli individui. Un altro fallimento del capitalismo artista è evidente sul piano urbanistico. Le città fatte di enormi periferie sono dei non luoghi senz’anima e senza estetica. Procurano un sentimento di monotonia e di uniformità terrificante, che è esattamente il contrario dell’investimento estetico dominante. Insomma, il capitalismo artista, per ora, non ha saputo trasformare il paesaggio urbano. Secondo me però l’architettura sarà l’arte dominante del XXI secolo».

Quale sarà l’evoluzione futura del capitalismo artista?

«Dopo l’ibridazione tra estetica e economia, razionale e irrazionale, calcolo e emozioni, in futuro si aggiungerà una nuova ibridazione con l’ecologia. Il capitalismo dovrà fare i conti con il paradigma ecologico, che finora è sempre stato del tutto estraneo alle preoccupazioni dell’estetica. Da questo punto di vista, il movimento nato attorno a slow food è l’espressione dell’emergere di un desiderio estetico differente, capace di preoccuparsi della salvaguardia del pianeta. Un desiderio che in nome della qualità si contrappone alla velocità della mondializzazione che esige profitti immediati».

Pensa che i giovani siano attrezzati per orientarsi nella nuova selva culturale del capitalismo artista?

«Oggi la vita estetica occupa uno spazio considerevole nella vita di tutti. Per evitare che le regole estetiche siano solo quelle dettate dal mercato, dobbiamo aiutare i giovani ad allargare i loro orizzonti d’esperienza. Non dobbiamo dire loro ciò che devono amare — perché i gusti non si decretano — ma dobbiamo aiutarli a scoprire la varietà dell’offerta culturale, dando loro gli strumenti per orientarsi. La scuola deve inventare una nuova educazione artistica. È una sfida capitale perché la vita estetica è ormai diventata un ideale diffuso».

19 Ago

4689 grandi opere d’arte, libere da diritti

19 Ago2013

Quadri di Van Gogh e Rembrandt, fotografie di Evans e Cameron: fanno parte della collezione Getty, da qualche giorno sono online e di pubblico dominio

Dal 12 agosto 4689 riproduzioni di opere d’arte sono state “aperte al pubblico”, liberate dai diritti d’autore, dal J. Paul Getty Trust, una delle principali istituzioni d’arte negli Stati Uniti. Creato nel 1953 da J. Paul Getty, ricchissimo fondatore della compagnia petrolifera Getty Oil Company, il Getty Museum raccoglie enti di ricerca e un museo d’arte con due sedi: una presso il Getty Center di Los Angeles in California, e una alla Getty Villa di Malibu.

Il programma di “liberazione” delle opere si intitola Open Content Program. Il presidente e amministratore delegato James Cuno ha spiegato che «il Getty Museum fu fondato con la convinzione che capire l’arte potesse rendere il mondo un posto migliore, e condividere le nostre risorse digitali è un’estensione naturale di quel pensiero. Artisti, studenti, insegnanti, scrittori e molti altri utilizzano le immagini delle opere d’arte per imparare, raccontare storie, scambiarsi idee e nutrire la propria creatività».

La collezione del museo è frutto delle acquisizioni personali di Getty, scelte tra Stati Uniti e il resto del mondo, dall’antichità fino ai giorni nostri: ci sono quadri di Monet, Van Gogh, Rembrandt, da Vinci, sculture, disegni e molte fotografie degli autori più importanti nella storia tra cui Eugène Atget, Gustave Le Gray, William Henry Fox Talbot, Lewis Wickes Hine, Julia Margaret Cameron e Walker Evans.

La scelta di Getty e le motivazioni citate da Cuno fanno riferimento a una politica molto diffusa negli Stati Uniti per le opere d’arte storiche: la digitalizzazione e l’archiviazione online per permettere una consultazione su Internet del patrimonio artistico e intellettuale del paese, come avvenne qualche tempo fa per gli archivi della Library of Congress.

L’archivio online contiene le immagini e le schede complete da scaricare, utilizzare o condividere in qualsiasi modo, citandone correttamente i credits e seguendo le indicazioni fornite dal programma. L’archivio – il Getty Gateway Search – è completamente consultabile online.

18 Ago

Un click (da 5 milioni di dollari) per l’opera d’arte così l’e-commerce sfida il mercato dei collezionisti

18Ago2013

Scritto da JAIME D’ALESSANDRO, la Repubblica

Da Rockwell a Picasso, Warhol eChagall: 40mila dipinti in vendita sul nuovo sito di Amazon

ROMA — La spedizione, grazie a dio, è gratuita. Considerando che il dipinto di Norman Rockwell in vendita su Amazon Fine Art costa 4 milioni e 850mila dollari, organizzare il trasporto e l’assicurazione non sarebbe stato facile.

Willie Gillis: Package From Home, primo di una serie di undici illustrazioni di Rockwell apparse nel 1941 sul Saturday Evening Post, è una delle 40mila opere disponibili nel nuovo dipartimento online aperto dall’azienda di Jeff Bezos a inizio agosto. Le opere che superano i 10mila dollari, vendute da oltre 150 galleristi di tutto il mondo, sono già più di 1.600. Per esempio, la Rudolf Budja Galerie di Vienna propone un acrilico di Andy Warhol a quasi un milione e mezzo di dollari. Ma ci sono anche un Picasso — Jacqueline au Chapeau Noir, del 1962 — in vendita a 175mila dollari e una china di Salvador Dali a 78.500. Prezzo simile dell’acquerello di Joan Miro e delle due litografie di Marc Chagall. Molto più a buon mercato, si fa per dire, le opere di Christo: acquistabili ad “appena” 10mila dollari.

«Quando iniziammo a trattare pietre preziose avevamo qualche dubbio sulle reali possibilità di vendere questo tipo di cose online», aveva spiegato tempo fa Diego Piacentini, braccio destro di Jeff Bezos con un lungo passato in Apple. «E invece è andata bene, oltre le nostre aspettative: comprando da noi le persone si sentono garantite, quanto o più che in una gioielleria». E allora perché non l’arte contemporanea, si saranno domandati ad Amazon. Perché non competere direttamente con Sotheby’s, con la quale Bezos aveva già tentato una partnership nel 1999. In fondo pure da loro gli acquisti si fanno spesso a distanza. Basti pensare che, stando alla Cnbc, lo scorso anno il 27 per cento dei 6 miliardi e 300 milioni di dollari incassati da Christie’s è arrivato dalle offerte fatte via telefono.

Peccato che l’arte contemporanea non si misuri in carati. D’altronde non è detto che le quotazioni di Amazon siano le migliori. Come invece capita quando si tratta di un televisore o una macchina fotografica. Non a caso le critiche sono già arrivate e alcune sono molto pesanti: l’economista Tyler Cowen, firma del New York Times, nel suo blog ha parlato del nuovo dipartimento di Amazon come di un catalogo di opere di scarso valore estetico e valutate eccessivamente. Come dire: finché si tratta di libri è un conto, il mercato dell’arte è tutt’altra cosa.

Eppure, tra gli addetti ai lavori, l’operazione di Bezos&Co. viene presa molto sul serio. «Certo, il marchio Amazon ha un peso notevole e l’azienda è enorme », ha spiegato a Fortune l’amministratore delegato di Christie’s, Steven Murphy, che ha lavorato sia nel campo dell’editoria con Simon & Schuster sia in quello della musica con la Emi. «Ma quello dell’arte non è un settore paragonabile alla musica e all’intrattenimento. Nessuno compra Eric Clapton perché il disco è pubblicato dalla Warner, mentre invece molti acquistano opere d’arte da noi proprio perché la nostra casa si chiama Christie’s». Murphy si dice comunque fiducioso: «La mossa di Amazon avvicinerà le persone al mercato dell’arte e alla fine ne beneficeranno tutti». E infine aggiunge: «Il fatto che l’arte contemporanea passi per il commercio elettronico è inevitabile. Contrastarlo sarebbe inutile come tentare di fermare la diffusione della ferrovia nell’Ottocento. Una battaglia insensata».

22 Mar

Munch, la «Giovane donna» batte il record

22Mar2013

Scritto da STEFANO BUCCI, Corriere della Sera

A fare notizia, e record, è stato ancora una volta Edvard Munch, star quasi assoluta delle ultime aste.
Stavolta non si tratta dell’Urlo, il quadro più caro del mondo venduto da Sotheby’s a New York per quasi 120 milioni di dollari nello scorso maggio: a celebrare degnamente il 150° anniversario della nascita del pittore norvegese (1863-1944) è stata invece la sede londinese di Christie’s che di Munch ha battuto mercoledì l’acquatinta Giovane donna sulla spiaggia (1891-92, a destra) per 2,4 milioni di euro, oltre quattro volte la stima iniziale e nuovo record per un «multiplo» dell’artista, acquistata dalla Galleria K di Oslo per conto di un anonimo collezionista europeo. Mentre buoni risultati hanno ottenuto anche i «multipli» di Kentridge, Picasso, Morandi, Beckmann, Gauguin e Lichtenstein.
Il record di Munch certifica ulteriormente la crescita del «multiplo»: mosaico, arazzo, incisione, litografia, acquatinta, scultura, serigrafia, tecnica mista «pensati dallo stesso artista, in un numero limitato di esemplari, più accessibili in termini di costo, ma altrettanto esemplificativi della sua poetica». Un mercato (costo medio di un multiplo attorno ai seimila euro) sul quale si è di recente misurata con successo Editalia (il gruppo Istituto Poligrafico & Zecca dello Stato).
Partecipando a una tavola rotonda dedicata appunto al tema dei «multipli d’arte», tenutosi ieri nella sede milanese del «Sole 24 Ore», Marco De Guzzis, amministratore delegato di Editalia, ha sottolineato come queste «opere all’estero possano già contare su un mercato rilevante», ma che stiano «iniziando a ritagliarsi uno spazio importante anche in Italia»: la mostra Small Utopia tenutasi alla Fondazione Prada di Venezia nel 2012, «con la sua idea di democratizzazione della bellezza» ne è in qualche modo la testimonianza. Un progetto, quello di Editalia, «basato sulla qualità, sulla certificazione e sulla scelta di voci autorevoli che hanno fatto del multiplo un codice espressivo sempre più attuale». Dalla litografia Senza titolo di Kounellis alla xilografia Stupor mundi di Paladino, dalle sagome colorate a mano e collage Mistero in-forme di Carla Accardi al mosaico Uomini rossi di Aligi Sassu.
Una scelta che, per De Guzzis, «coinvolgendo nella realizzazione di questi multipli» i nostri migliori laboratori artistici «celebra l’idea stessa del made in Italy». Sembrano crederci sempre più gli artisti (anche quelli un tempo riluttanti come Hirst o Cattelan) e i nuovi collezionisti (quelli che privilegiano il Web mercato). I risultati danno loro ragione, anche prima dell’ultimo record di Munch:nel 2011 furono sborsati quasi 17 milioni di euro per una Liz di Warhol. E pensare che era «solo» un multiplo.

11 Ott

Kandinsky Nell’anima russa

11Ott2012

Scritto da Elena Pontiggia, Corriere della Sera

Una mostra a Pisa. I sogni di un ribelle prima dell’esilio La nascita dell’astrattismo nei dipinti che riflettono la cultura della sua terra. Nell’armonia cromatica il senso di una ricerca spirituale
A l di là della soglia — che dalla luminescenza solare dei lungarni pisani ci introduce in un atipico corridoio di luci artificiali e ombre — c’è un mondo antico ed esoterico, simbolico e folcloristico. Filatoi contadini, giocattoli di legno, vestiti tradizionali, ataviche novelle con rappresentazioni grafiche, personaggi mitici. E colori, con quelle tonalità così intense da inebriare il visitatore incantato e smarrito per questo salto quantico verso una Russia inattesa.
È la rappresentazione allegorica di quel plancton culturale del quale Wassily Kandinsky si cibò elaborando e trasmutando l’ormai insostenibile leggerezza della cultura europea (che aveva ammaliato e permeato la Grande Madre Russia e, dopo l’invasione napoleonica, aveva iniziato ad appassire) per guardare all’io individuale e all’io sociale, nascosti, rimossi, cancellati, sbiaditi forse come colori amorfi.
È lo stesso cibo che assaggia il visitatore, se pur in un frammento dell’anima piccolo e fugace ma così intenso da restare indelebile, immergendosi nella straordinaria e unica mostra sul padre dell’astrattismo che si inaugura da sabato sino al 3 febbraio del 2013 a Palazzo Blu di Pisa.
È un evento perché per la prima volta in Italia si svela il Kandinsky del periodo russo (1901-1921) e lo si mette a confronto con l’avanguardia del suo tempo, quella del suo Paese natale e quella della Germania, dove Wassily fuggì perseguitato dal regime sovietico. Così le opere di Alexej Jawlensky, Marianne Werefkin e Gabriele Munter (solo per citare alcuni nomi) si intersecano in questo cammino dell’arte, simbolica prima e astratta dopo, di un genio trafitto dal demone dell’arte fin da bambino ma rapito completamente, da avvocato, durante quel viaggio fondamentale, nella regione della Vologda, in Siberia, tra le izbe, le case rurali russe, decorate e colorate e i paesaggi, tanto da aver la sensazione, come scriveva entusiasta e commosso, di «vivere dentro un quadro».
Ed è proprio questa sensazione di realtà virtuale che si percepisce nel corridoio che ci introduce alle tredici sale della mostra in un percorso artistico (e anche un po’ metafisico) alla scoperta di un pittore che da un simbolismo, se pur già diverso da quello dei suoi contemporanei, si proietta verso l’astrattismo di cui è l’artefice. Sono 150 le opere esposte a Palazzo Blu, una cinquantina di Kandinsky e le altre di contemporanei (russi e tedeschi), ma ci sono anche dipinti di Arnold Shöenberg (tra i quali un magico autoritratto), amico di Wassily, il genio austriaco inventore della musica dodecafonica. Che anch’essa, probabilmente, può essere in parte paragonata all’astrattismo di Kandinsky, una frattura epistemologica nell’arte del ‘900.
In una sala, accanto a «Macchia nera», il dipinto del 1912 con il quale l’artista abbandona ormai ogni riferimento figurativo, si sfiorano strumenti sciamanici tra i quali un tamburo, riprodotto (la macchia) nello stesso capolavoro. E sembra quasi di sentirlo vibrare, questo tamtam rituale, insieme a un’orchestra impossibile, che diffonde le cascate di note (e colori) della Sagra della Primavera di Igor Stravinskij.
Si cammina tra le sale che ripropongono i primi dipinti di Kandinsky, in quell’atmosfera simbolista del periodo di Murnau. Si scivola, senza accorgersene, incontro alle grandi tele dell’avanguardia russa e occidentale, intorno al Der Blaue Reiter, e i maggiori protagonisti della sperimentazione russa, da Michail Larionov alla Goncharova. E infine ecco i capolavori, prima della sua fuga dal regime sovietico, quando accetterà da Walter Gropius l’insegnamento al Bauhaus.
Nella sala del drago, se così possiamo chiamarla, l’emozione è al culmine. Ci sono le iconografie di San Giorgio nell’eterna lotta contro il mostro. E c’è la magia di un capolavoro di Wassily: «San Giorgio» (1911). Così, mettendo a confronto icone e dipinto, tradizione e astrattismo, si percepisce quel processo di decostruzione della realtà.
Poco più avanti, ecco la «sala delle barche»; e anche qui un dipinto di un pittore simbolista con le vele sul fiume serve a entrare in «Improvvisazione» (1910) e nell’«Improvvisazione» del 1917 con le «stesse» barche, gli uomini che remano, l’acqua, il cielo.
«È stata una sfida difficile quella di spiegare forse l’artista più concettoso nel Novecento», spiega Claudia Beltramo Ceppi, co-curatrice della mostra insieme Eughenia Petrova, direttrice del museo russo di San Pietroburgo.
Ma perché proprio Kandinsky? «Ci ha affascinato proporre questo periodo particolare della sua vita che segna la definitiva e totale immersione nella pittura — risponde Cosimo Bracci Torsi, presidente della Fondazione Palazzo Blu —. Inoltre, dopo il ciclo dedicato al Mediterraneo con mostre di grandissimo successo su Chagall, Mirò e Picasso, pensiamo a una serie di mostre dedicate all’astrazione».

   

11 Ott

Il pittore e le forme dei teosofi

11Ott2012

Scritto da Gregorio Botta, la Repubblica

Le influenze del circolo blavatskiano sulla rivoluzione astratta
C’è un errore all’origine dell’arte astratta, secondo la storia (o la leggenda?) che lo stesso Kandinsky ha raccontato: un giorno, mentre stava dipingendo, lasciò lo studio per una passeggiata. Al suo rientro, guardò stupito la tela sul cavalletto: non la riconosceva più, ma fu sedotto dalla sua forza e dalla sua potenza. Poi capì: il suo quadro era stato rovesciato dalla donna di servizio venuta a fare le pulizie. Quell’inversione fece compiere all’arte del Novecento l’ultimo passo che ancora mancava: liberare completamente il colore e la forma dall’obbligo di descrivere anche lontanamente una realtà visibile.
Probabilmente Kandinsky sarebbe arrivato lo stesso a varcare la soglia dell’astrazione. Il salto era nell’aria: e molti artisti percepivano il vento del cambiamento prossimo venturo. Un ruolo, nella rivoluzione estetica dei primi del secolo, l’ha certamente avuto la Società Teosofica di Madame Blavatsky. È noto che tutti gli artisti che hanno avuto a che fare con l’astrazione, Malevic, Mondrian, Kandinsky entrarono in contatto con le sue teorie e con quelle dell’eretico Rudolf Steiner, e ne furono in qualche modo contagiati. (Non Paul Klee, che invece nei suoi diari esprime una certa diffidenza per il movimento). Il titolo del manifesto di Kandinsky Lo Spirituale nell’arte è una chiara testimonianza di quelle influenze. Ma è invece meno conosciuta una strana coincidenza: quella di un piccolo e curioso libretto pubblicato dal circolo blavatskiano qualche anno prima delle Improvvisazioni
astratte. Si intitolava Le Forme-Pensiero, e gli autori erano Charles Webster Leadbeater e Annie Besant: spiegavano come pensieri e sentimenti fossero energie che assumevano nello spazio pattern e colori precisi: peccato che solo i chiaroveggenti fossero in grado di vederle. Ne disegnarono il catalogo. Qualche esempio? Un triangolo acutissimo rosso è un segno d’ira, un ovale rosato un pensiero d’amore, un sole (scontato, no?) è amore irradiante, un cerchio circondato da un alone azzurro è il sembiante di un pensiero d’aiuto, mentre una nuvola con una coda di ami uncinati rappresenta l’avidità. E via così. Anche la gamma dei colori è stata interpretata: il blu lapislazzuli significa “alta spiritualità”, il verde smeraldo simpatia, il giallo ocra un “forte intelletto”, il grigio scuro, naturalmente, depressione, il verde marcio inganno.
Tutto questo può fare anche sorridere, le associazioni tra forme e sentimenti sembrano fin troppo semplici e infantili. Ma i chiaroveggenti andarono a “vedere” – se così si può dire – le forme prodotte dall’esecuzione di musiche di Mendelssohn, Gounod e Wagner. E qui la somiglianza con le opere che più tardi avrebbe dipinto Kandinsky è impressionante. Linee guizzanti, nuvole di colore accesi, verdi intensi e rossi squillanti, e nessun riferimento alla realtà.
Il maestro russo scriveva che le sue opere non nascevano dall’arbitrio. “Tutto ciò che è necessario è nascosto. Ciò che è nascosto è alla base dell’opera, dell’opera viva”. E per questo sentì il bisogno di decifrare il codice delle forme che usava. In Punto, linea, superficie l’artista creò il catalogo che spiegava il movimento, il calore, l’effetto, in una parola il senso di linee rette e curve, di triangoli e cerchi, e dei colori. Un vero e proprio dizionario delle forme astratte: simile, in fondo, a quello dei teosofi. Sarebbe bello sapere se la sua biblioteca ospitò anche quel libricino.

11 Ott

Wassily Kandinsky. Inventare l’astrazione per dare voce all’anima

11Ott2012

Scritto da Claudio Strinati, la Repubblica

Le radici visuali e le componenti spirituali dell’opera del maestro russo raccontate in una mostra allestita a Palazzo Blu di Pisa
Di Wassily Kandinsky sono chiari molti aspetti ma la mostra che si tiene ora a Pisa permette di verificare in concreto l’attendibilità di quanto sembrerebbe ormai entrato nella coscienza comune di coloro che sono attenti alle cose dell’arte. Kandinsky da un lato fu un russo completamente calato all’interno del clima culturale e spirituale diffuso nella sua terra verso la fine dell’Ottocento (era nato nel 1866 e raggiunse la prima maturazione nel corso del nono decennio) e dall’altro è subito coinvolto con l’ambiente tedesco che lo indirizza verso il culto del Simbolismo e dello Jugendstil, spingendolo ad approfondire la componente spirituale dell’arte sottratta a un confronto diretto con il peso della realtà ma all’opposto orientata sulla scandaglio del profondo, della memoria, dell’introspezione.
Questa sorta di doppia radice, russa e tedesca, sarà determinante per tutta la parabola del grande artista destinato a restare sempre un po’ apolide, persino mal sopportato nella sua stessa patria. La mostra, curata da Eugenia Petrova, direttrice aggiunta del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo in collaborazione con Claudia Beltramo Ceppi raccoglie una cinquantina di opere provenienti da San Pietroburgo e da altri musei russi e europei, le affianca quelle dei compagni di strada tedeschi (da Gabriele Munter a Alexej Jawlensky, da Marianne Werefkin a Arnold Schönberg), e apre un orizzonte nuovo sulle possibili interpretazioni della questione decisiva dell’arte moderna: l’astrazione.
Kandinsky può esserne considerato il fondatore ma forse non il padre, perché l’astrazione non fu mai per lui un fine dottrinalmente perentorio, ma un metodo per esplorare territori sconosciuti dell’arte, presenti però alla coscienza umana fin dalle origini.
Quando Kandinsky scrisse Lo Spirituale nell’Arte questo punto era in effetti già latente. Ma l’esatta comprensione del suo pensiero stentò a emergere, anzi soltanto adesso la ricostruzione della storia dell’arte di quell’epoca si sta liberando da inveterati pregiudizi. La genesi de Lo Spirituale nell’Arte è
emblematica. Scrisse il testo in tedesco nel 1909 sotto l’urgenza di dare una sistemazione teorica a quel che stava facendo tra mille contraddizioni e ripensamenti. Poi l’anno dopo lo riscrisse in russo e già questo solo fatto la dice lunga sul suo animo tormentato perché la lingua russa di Kandinsky, come ci viene ben spiegato nel catalogo, era già di per sé una lingua scritta in modo difficile e altezzoso.
In veste di scrittore il maestro si espresse nella sua lingua madre in modo sempre forbito e sovraccarico di una terminologia ad alta densità filosofica e teosofica. Era una lingua destinata a una cerchia di iniziati anche se pretendeva di lanciare un messaggio generoso e ardente a tutta l’umanità, mentre la stesura tedesca accentuava l’argomentazione tecnica. Il libro venne completato e uscì tra il 1911 e il 1912. Kandinsky vi parla, con enfasi, dell’avvento di un’epoca di eletta spiritualità e del principio della necessità interiore che l’artista deve assecondare e tradurre nel concreto dell’opera realizzata. La parola chiave è “anima”.
È l’anima che si deve vedere nell’opera, ma la rappresentazione dell’anima è di necessità astratta perché la verità della dimensione spirituale non ammette figura ma pretende “forma”. In questa aporia misteriosa sembra risiedere l’esigenza perentoria del cambiamento in Kandinsky.
Ma egli in realtà restava libero dai suoi stessi principi senza averne mai fatto una sorta di dogma. Quante sollecitazioni aveva dovuto coordinare lungo il cammino per giungere alla conclusione di potersi presentare come teorico, docente, educatore del popolo, poeta segreto.
All’inizio degli anni Ottanta, giovanissimo, aveva viaggiato per la Russia settentrionale ed era rimasto incantato da questo mondo che sembrava vivere ancora nella dimensione della favola, nell’izba contadina gremita di oggetti, sfavillante di colori, calda e accogliente come un grembo materno. Così racconta il suo ingresso nell’izba di Vologda: «Mi fermai sulla soglia, mi sembrava di entrare nel colore. Avanzai all’interno di un quadro». Quest’esperienza fu fondativa per lui: per tutta la vita cercò la potenza del colore e della forma. Ed è bello che la mostra di Pisa dedichi una sezione alle radici visive dell’opera del maestro russo con oggetti appartenenti alla tradizione dello sciamanesimo raccolti negli stessi anni in cui Kandinsky li appuntava sui suoi taccuini, e da coloratissimi oggetti della tradizione folclorica. Ma ci volle del tempo prima che incontrasse la sua strada. La sua prima formazione era avvenuta in campo giuridico presso la facoltà di Legge di Mosca. Qui aveva lavorato a lungo, appassionandosi alla disciplina e dedicandosi particolarmente a speculazioni teoretiche di filosofia del diritto. Aveva avuto chiara cognizione della dialettica tra diritto romano antico e diritto russo. È proprio nel diritto che aveva individuato una peculiarità russa, rivolta alla cognizione dell’anima. Eccone la interessante chiave interpretativa: il diritto romano insegna a giudicare il fatto, il diritto russo insegna a giudicare l’animo umano, evidenziandone le motivazioni e i relativi comportamenti. Scrive Kandinsky stesso che nel diritto prediligeva la dimensione dell’astrazione concettuale piuttosto che quella della concreta applicazione della norma, anche rispetto alle grandi questioni sociali che di lì a poco avrebbero portato alla rivoluzione e alla vittoria dei principi del materialismo storico.
Ma il materialismo storico era proprio all’opposto di quella via dell’anima che l’artista riteneva determinante e esclusiva per attingere la verità dell’arte. Credeva non a Marx ma al mistico duecentesco Gioacchino da Fiore che aveva profetizzato (e anche Dante lo seguì) i tre regni dell’umanità, sotto il dominio del Padre (il tempo della legge), del Figlio (il tempo della redenzione), dello Spirito Santo (il tempo della rivelazione).
Nasceva in quel momento la convinzione in Kandinsky che la vera rappresentazione dell’anima umana consistesse nella capacità di fissare in immagine quella “risonanza interiore” che genera il suono da un lato (e si estrinseca nella musica) e il colore dall’altro (e si estrinseca nella pittura) concretizzandosi attraverso la combinazione degli elementi essenziali del sapere, che per antonomasia è quello visivo: il punto, la linea, la superficie. Ecco il racconto figurativo dell’anima. Un’utopia, che non gli impedì di continuare contestualmente a rappresentare le favole antiche della gente della sua terra, vista in una lontananza siderale ma captata in uno spazio che ha perso peso e consistenza, per poi ritrasformarsi nell’altro da sé della pura astrazione.

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