Scritto da Valentina Parisi – il manifesto

Nell’età postmoderna il mito della modernità di inizio ’900 ha assunto una valenza arcaica? Riprendendo l’interrogativo di fondo posto da Roger Buergel nel 2007 a «Documenta» XII di Kassel, la articolata mostra Modernikon (curata da Francesco Bonami e Irene Calderoni alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino e visibile fino al 27 febbraio 2011) indaga il rapporto dell’arte contemporanea russa con l’eredità modernista e, in particolare, con quella sua specifica variante costituita dall’archeologia post-sovietica – reservoir visivo e concettuale cui hanno attinto almeno due generazioni di artisti. Volendo infatti accogliere l’ipotesi di Viktor Misiano secondo cui l’esperienza russa della modernità è inscindibile dalla parabola storica dell’Urss, il «moderno antico» di Buergel andrà ravvisato nei relitti sovietici fotografati dal quarantenne Sergej Bratkov nel ciclo Ucraina o nelle rovine del villaggio abbandonato di Shargorod, eternate nei suoi video da Vladimir Logutov (nato nel 1980). La tecnica del loop digitale permette all’artista di fissare l’espressione stupita dei soggetti ritratti in un paesaggio di macerie, come se la videocamera avesse colto l’istante sospeso tra lo scoppio di una bomba e la sua deflagrazione, come se l’esplosione metaforica di un mondo intero stesse avvenendo ancora davanti ai nostri occhi e non si fosse compiuta vent’anni fa.
Un eterno ritorno che è al centro anche degli enigmatici video di Viktor Alimpiev, dove attori professionisti inscenano coreografie dalla lentezza estenuante, raffinati tableaux vivant che rammenterebbero l’iconografia socialista se non fosse per la gamma cromatica soffusa, significativamente attestata sulle sfumature del rosa. Se la gestualità contratta delle giovani comparse di Alimpiev pare alludere a un rituale immobile, a una dinamica fine a se stessa, Anatolij Osmolovskij, performer radicale degli anni ’90, si incarica di mostrarci quel che resta di un pugno chiuso nel suo ciclo scultoreo Avanzi del fronte rosso. Stringendo una sostanza malleabile tra le cinque dita ripiegate e fondendo nel bronzo la forma così ottenuta, l’artista moscovita eleva un monumento paradossale all’assenza, alle lacune lasciate dall’ideologia, coronando così una riflessione più che decennale sulla scultura celebrativa sovietica. La medesima dialettica tra pieno e vuoto torna anche nell’omaggio a Rembrandt di Dmitrij Gutov che, assemblando materiali ferrosi di scarto, crea sorprendenti copie tridimensionali delle incisioni del pittore olandese, incastonandole poi in cornici sospese. O, ancora, nelle grandi sculture cave di legno nero di Stas Shuripa, che riproducono le planimetrie standard delle cosiddette chrushchevki, le case volute da Chrushchev per rimpiazzare gli appartamenti comunitari, ormai divenuti invivibili.
Uno dei leitmotiv della mostra è infatti la progettazione dello spazio – tema chiave del modernismo, non solo russo. E se Shuripa trasfigura un simbolo di degrado come la chrushchevka in un prezioso oggetto minimal, opposta è l’operazione del collettivo di architetti utopici Iced Architects che hanno appeso alla facciata della fondazione torinese un’unità abitativa parassitaria, una sorta di accogliente nido teoricamente destinato ai senzatetto della città. La forza visionaria delle avanguardie è tornata attuale? Questo sembra suggerire la mostra torinese che, nell’accogliere il testimone offerto da Parigi (il 2011 sarà infatti l’anno del gemellaggio culturale tra Russia e Italia), ha il pregio di operare scelte meno «classiche» rispetto ai contrappunti d’autore del Louvre.