06 Lug

L’utopia del ‘900: arte ovunque

Scritto da VINCENZO TRIONE – Corriere della Sera

Immagini, oggetti, suoni. La bellezza «a portata di mano»

«Verrà un tempo in cui il quadro non basterà più: la sua immobilità sarà un anacronismo nel movimento vertiginoso della vita umana», afferma Umberto Boccioni in una conferenza del 1911. Potremmo partire da queste parole per attraversare le sale di Ca’ Corner della Regina, a Venezia, dove è allestita «The Small Utopia. Ars multiplicata», a cura di Germano Celant, promossa dalla Fondazione Prada (da oggi al 25 novembre). Una mostra esemplare, che salda rigore metodologico e originalità critica. Un itinerario sofisticato, che propone una rilettura di significativi continenti dell’arte del XX secolo.
Documentando la stagione delle prime e delle seconde avanguardie (dal 1901 al 1975), il percorso non segue un andamento cronologico. Ma indugia su poetiche, stili, tendenze: dal futurismo al costruttivismo, dal dadaismo al Bauhaus, dal neoplasticismo al surrealismo, dal Nouveau Réalisme all’optical, da fluxus alla pop art. Costellata di circa 600 tra multipli, prototipi ed edizioni rare, la narrazione espositiva ruota intorno a tre «atteggiamenti» prevalenti. Innanzitutto, ci imbattiamo in autori come Balla, Depero, Malevic, Rietveld, la Delaunay, Albers e Alviani, i quali sottolineano l’importanza della «diffusione estetica», misurandosi con generi come il protodesign (o artigianato di lusso), l’arredamento, la moda, l’editoria (libri e copertine di dischi). Poi, incontriamo personalità come Marinetti, Russolo, Savinio, Schwitters, Moholy-Nagy, Fischinger, Ruttmann, Cage, Rotella e Whitney, che utilizzano media come radio, musica e cinema. Infine, scopriamo voci come Duchamp, Man Ray, Beuys e Oldenburg, che, influenzate dalla civiltà industriale, affrontano la sfida della produzione in serie, realizzando opere simili a gadget o a sculture da viaggio (Duchamp, nella «Boîte en valise», raccoglie in scala ridotta alcuni tra i suoi più celebri ready made).
Addio unicità, irripetibilità, eccezionalità. I miti novecenteschi sono altri: serialità, moltiplicazione, replica. Pur con accenti diversi, gli artisti selezionati in «The Small Utopia» sono accomunati da alcune «necessità». Nell’epoca della riproducibilità tecnica, essi ripensano radicalmente la loro stessa identità. Sembrano non inseguire più il «capolavoro»: un’opera non è solo un quadro o una scultura. Mettono in crisi antiche convinzioni idealistiche: non giudicano più la manualità come un valore indispensabile. Si comportano come «mediatori», che elaborano reti di relazioni e di opportunità, in un serrato dialogo con il loro ambiente e con il loro tempo.
Si pensi all’ambigua esperienza degli animatori delle avanguardie, i quali sembrano muoversi tra due poli. Per un verso, sostengono «messaggi poetici» spesso elitari, impopolari, talvolta ermetici, oscuri, addirittura iconoclasti. Per un altro verso, modellano utopie: progettano scenari ulteriori, esercizi visionari, prefigurando possibili paesaggi futuri. Da un lato, fuggono il mondo. Dall’altro, provano ad aderirvi. Abbandonano i luoghi istituzionali (musei e gallerie), per secolarizzare le loro azioni e il loro stile. Inseguono una bellezza «a portata di mano»: non più trascendente, ma immanente. Vogliono entrare (finalmente) nel corpo della società. Promuovono una democratizzazione dell’arte. Trasgrediscono l’aura, intesa, per dirla con Benjamin, come «apparizione di una lontananza», fino a celebrare il «potere della vicinanza». Sembra compiersi la profezia di Valéry in uno scritto del 1928: «Le opere acquisteranno una sorta di ubiquità. (…) Come l’acqua, il gas, la corrente elettrica giungono da lontano nelle nostre case per rispondere ai nostri bisogni (…), così saremo alimentati da immagini visive o uditive, che appariranno e spariranno al minimo gesto».
Immagini visive e uditive. Ma anche oggetti e suoni. Componendo una archivio di eterogenee reliquie moderne, «The Small Utopia» fa emergere con efficacia due fenomeni contrastanti. La smaterializzazione, cui alludono i fotogrammi astratti e le sonorità sincopate nella sezione dedicata al cinema e alla musica (curata da Antonio Somaini con Marie Rebecchi). E l’ipermaterializzazione propria della ricerca di alcuni artisti che decidono di «rifare» in tanti esemplari le loro opere, in modo da arrivare ovunque. È il caso di Duchamp, e dei suoi ready made: oggetti banali (un igienico o uno scolabottiglie) che vengono defunzionalizzati, e poi «risemantizzati» e tirati in più copie. Ed è il caso di Warhol, e dei suoi Brillo Box.
Eppure, in filigrana, si intravedono tante aporie. Gli autori scelti da Celant sembrano oscillare tra sentimenti diversi: entusiasmo e disincanto. Sorretti dalla volontà di «ricostruire l’universo» (come avevano auspicato Balla e Depero), vogliono uscire da castelli protettivi, per trasformare la loro pratica in evento collettivo. Sognano un’arte per tutti, democratica: un’avanguardia di massa. E, tuttavia, non riescono a portarsi al di là di soluzioni elitarie e intellettualistiche: continuano a ragionare da pittori e da scultori. Vogliono adeguarsi alle regole della società di massa, mirando però a salvaguardare il loro «temperamento» anarchico, irrequieto. In molti casi — come fanno i nouveau réalistes e lo stesso Duchamp — ricorrono all’artificio della «ripetizione differente»: propongono serie di opere, caratterizzate da lievi differenze e da minimi cambiamenti, trasgredendo i principi della standardizzazione su cui si basano linguaggi come il design.
Dunque, un catalogo di «piccole utopie». Che sembra evocare il naufragio dell’avanguardia, il cui destino resterà sempre meravigliosamente incompiuto, irrealizzato, irrisolto. In bilico tra l’interesse per i modi di un’arte popolare e la segreta attrazione per quella che rimane la più grande ambizione di ogni artista autentico: la tensione verso il capolavoro. Verso l’opera unica, irripetibile, intemporale, senza prezzo. Tornano alla memoria le parole di Robert Hughes: «Difendere ciò che è inestimabile: che programma!».

15 Giu

Fabio Mauri e la banalità del male nella sua arte le tragedie del ‘900

Scritto da CRISTIANA CAMPANINI – la Repubblica, pagine Milano

Palazzo Reale dedica una mostra al maestro concettuale, celebrato anche a Kassel

IL DOLORE, la storia, l’ideologia, il percorso di Fabio Mauri (Roma, 1926-2009) è rigoroso attraverso un’opera politica che non fa concessioni allo spettacolo, all’ironia, al gioco o al paradosso a cui l’arte contemporanea ci ha spesso abituati. Pittore, regista, scrittore, drammaturgo, la vita d’artista s’intreccia fitta a quella di editore (prima direttore di Messaggerie e Garzanti, dal 2005 presidente del terzo gruppo italiano, Gems – Gruppo editoriale Mauri Spagnol).
«Un turista di tutte le arti possibili », lo definisce Lea Vergine, curatrice della sua prima grande retrospettiva prodotta dal Comune di Milano che sarà inaugurata lunedì a Palazzo Reale alle 19 (in uscita anche due libri, Ideologia e memoria, Bollati Boringhieri con prefazione di Umberto Eco, e il catalogo Skira The end,
che accompagna la mostra). Mauri è considerato uno dei maestri dell’arte concettuale italiana e anche Documenta 13, la rassegna quinquennale inaugurata da pochi giorni a Kassel, punta i riflettori sul suo lavoro dedicandogli un’intera sala, oltre a riallestire una sua performance del 1989, Che cos’è la filosofia,
un’azione collettiva, quanto mai attuale, che solleva interrogativi come «Cos’è la Germania? E l’Europa? Che significa essere Europa?».
Figlio di Umberto, direttore commerciale della Mondadori e agente di Pirandello, e di Maria Luisa Bompiani, sorella di Valentino, a 16 anni fondava con Pasolini la rivista d’arte e letteratura “Il Setaccio”. Ma sono gli orrori della guerra a condurlo appena diciottenne alla follia, da cui uscirà solo dopo 33 elettroshock. L’adolescenza drammatica lo porta a interrogarsi per tutta la vita sull’origine del male, toccando temi come il fascismo, il nazismo, la shoah, nel tentativo di decifrare la realtà e soprattutto scovare i luoghi in cui il male risiede e si ripete. Dagli anni Cinquanta con Umberto Eco ed Edoardo Sanguineti fonda il Gruppo 63 e la rivista d’avanguardia “Quindici” (1967). E nell’arte dall’espressionismo passa al collage e ai fumetti. Seguono monocromi, installazioni e performance.
Palazzo Reale riunisce oltre cento opere in 12 sale. Ci sono installazioni- capolavoro come Ebrea (1971), un’antologia di design dell’orrore, un ambiente domestico punteggiato di oggetti che dichiarano di essere fabbricati con i materiali organici degli ebrei morti nei campi di sterminio nazisti. Oppure Il muro Occidentale o del pianto
(1993), valige impilate in un muro squadrato per raccontare d’identità in fuga unite da un destino comune. Si aggiungono disegni inediti e dipinti monocromi della serie
Schermi, sculture, installazioni e una forma pionieristica di cinema live. Nel 1975 Fabio Mauri proiettava, ad esempio, un film di Eisenstein in un secchio colmo di latte. Da quell’opera-performance, dal titolo Senza ideologia, i visitatori potevano attingere con un mestolo per bere la materia stessa del film. Lo stesso anno, con
Intellettuale alla Galleria comunale di Bologna, la camicia indossata da Pasolini diventava schermo del suo film Il Vangelo secondo Matteo.
«Una radiografia dello spirito», come la definiva Mauri.

09 Giu

MOSTRA DI PITTURA RUSSA E SOVIETICA

Scritto da Redazione

Dal 12 aprile al 31 maggio 2012 al Teatro della Cooperativa di Milano

Le opere esposte nel foyer del Teatro della Cooperativa appartengono alla corrente artistica pittorica del Realismo socialista sovietico, arco temporale che va dal 1930 al 1990 anno dello scioglimento del CCCP.

Le tele esposte sono state realizzate da artisti per la maggior parte ucraini, tra cui il più anziano Khodchenko Lev Pavlovic (1912-1998), e il più conosciuto in Europa Sulimenko Peter Stepanovich (1914-1996), tutti provengono da importanti scuole accademiche e  sono stati  premiati in Unione Sovietica ed all’estero.

La sincera adesione ai valori del realismo li vede interpreti di tematiche storiche e sociali affidati ad un linguaggio sicuramente didattico e didascalico, ma pur sempre originale nella ricerca dell’impatto comunicativo.

I dipinti presenti in mostra hanno soggetti vari e stili diversi per un pubblico variegato.Il perché di questa mostra è molto semplice: l’arte, in tutte le sue forme, per tutti.Per gli interpreti del realismo sovietico l’arte non era esclusiva dei salotti borghesi, ma era di fruizione pubblica. Anche noi riteniamo che il piacere estetico ed etico di tali opere possa essere fruito dal pubblico e dagli amici del Teatro della Cooperativa.

Tra gli artisti potrete ammirare dipinti di:

BONYA GRIGORY VASILEVICH (“Lenin in Crimea”)
SULIMENKO PETR  STEPANOVICH (“Comizio di Lenin”)
SIDOROV ALEKSEI EVDOKIMOVICH (“Comizio di Lenin”)
TOMENKO GRIGORI ALEKSEEVICH (“Lenin con Bambini”)
KHODCHENKO LEV PAVLOVIC (“Festa”)
KOVTONYUK IVAN ANANEVICH (“Premiazione trattoristi”)
EGOROV BORIS KUZMICH (“Fabbriche in produzione“)
CHERNY MIKHAIL NIKIFOROVICH (“Ciapaiev”)
POLONSKI EUGENI PAVLOVICH (“Fino all’ultimo respiro”)

05 Giu

1917, la morte entra a capofitto nell’arte

Scritto da Anna Maria Merlo – il manifesto

RASSEGNE Al Pompidou Metz, l’anno cruciale METZ.

Il 1917 è «l’anno impossibile» che, pur essendo il meno cruento della Grande guerra (150mila morti, mentre dal 1914 al ’18 ci sono stati circa 9 milioni di morti e 20 milioni di feriti), vede irrompere la morte nella rappresentazione del conflitto e gli artisti non esitano più a mostrare l’orrore. È l’anno in cui arrivano sulla scena bellica i blindati sui campi di battaglia, quello dell’entrata in guerra degli Stati uniti e della rivoluzione in Russia. Il 1917 è anche l’anno della scomparsa dello scultore Rodin e dell’effervescenza creativa, sia nelle retroguardie, come a Parigi, che nei paesi neutri: ad Amsterdam il 16 giugno viene fondato il gruppo De Stijl, a gennaio a Zurigo c’era stata la prima mostra Dada. Grandi artisti si ispirano agli avvenimenti in corso, il vecchio Monet accetta l’idea di dipingere la cattedrale di Reims bombardata, opera che non realizzerà mai, mentre al fronte gli eserciti inviano dei pittori e fotografi per registrare i fatti e riportare immagini del conflitto.
A questo anno di guerra, il Pompidou-Metz dedica la rassegna 1917 (fino al 24 settembre) in cui sono coinvolti tutti i campi di intervento artistico. L’opera più eccezionale esposta è Parade di Picasso, il sipario realizzato per un balletto, con testo di Cocteau e musica di Satie, rappresentato al Téâtre du Châtelet a Parigi il 18 maggio 1917 di fronte a un pubblico più che perplesso e anche offeso. Si tratta del più grande Picasso esistente, 170 mq di stoffa (10,5m x 16,4), 45 kg di peso, che appartiene alla collezione del Pompidou ma che è stato esposto solo una decina di volte e da vent’anni era nei depositi.
La mostra abbina opere di grandi artisti – Duchamp, Giacometti, Brancusi, Klee, Dix, Matisse, de Chirico – ai lavori di dilettanti, che in quell’anno avevano sentito il bisogno di reagire alla tragedia in corso con il ricorso all’arte. Sono quindi presenti esempi della cosiddetta «arte delle trincee», opere realizzate su tutti i fronti a partire da residui di obici e di armi.
L’esposizione si divide in due parti: la prima è dedicata alla nozione di distanza, fisica o simbolica, dagli avvenimenti, con temi dominanti come la morte o il fuoco, i rifugi, le evasioni mistiche, l’oggetto e le sue trasformazioni. Per la prima volta, sono esposte assieme Fontaine di Duchamp (il famoso orinatoio), Princesse X di Brancusi (un fallo in bronzo, all’epoca giudicato osceno) e God di Elsa von Freytag. La seconda parte della mostra, allestita in forma di spirale, si concentra sulle problematiche della distruzione e ricostruzione, sui corpi e i volti deturpati, sui paesaggi e le architetture distrutte. È esposto un insieme eccezionale di autoritratti: Chagall, Gonzalez, Monet, Nolde, Orpen, Hans Richter. E una intera sezione è dedicata all’estetica delle rovine e del frammento.
In questa «spirale» – motivo ricorrente nel 1917, che simboleggia sia i disastri fisici che i tormenti interiori – dominano la morte e i tentativi di proteggersi da essa. La maschera di Arlecchino compare a varie riprese, fino al tendone di Parade. «Per vincere la guerra tutti i soldati avrebbero dovuto vestirsi da Arlecchino», aveva detto Picasso. Accanto, sono esposti i volti modellati in cera e gesso dei soldati terribilmente mutilati dalle esplosioni, con le fotografie delle prime protesi e i tentativi di ricostruzione (provenienti da musei militari). Una mano di Rodin è esposta accanto alle modellature di quelle di due soldati mutilati. L’ultima tranche della rassegna guarda al futuro. In particolare, alcuni esempi di astrazione russa aprono la prospettiva verso tempi di grande creazione.

01 Giu

Dürer La disciplina del genio

Scritto da PAOLO LEPRI – Corriere della Sera

L’artista torna nella sua città natale. Dopo tre anni di raggi X

I l ruolo di Albrecht Dürer nella storia dell’arte mondiale è così importante che un suo quadro era stato scelto per una curiosa operazione politico-diplomatica, poi rimasta bloccata da quegli improvvisi cambiamenti di clima che spesso si registrano nei rapporti internazionali. Per concludere nella Piazza Rossa di Mosca «l’anno tedesco-russo», il presidente della Germania Joachim Gauck e il leader del Cremlino appena rieletto, Vladimir Putin, avrebbero dovuto partecipare al montaggio di un gigantesco puzzle, di 1.023 pezzi, che riproduceva un autoritratto dell’autore di «Il Cavaliere, la morte e il diavolo». Sarebbe stato un evento significativo. Ma lo è sicuramente di più questa mostra, Der Frühe Dürer, apertasi nei giorni scorsi al Germanisches Nationalmuseum di Norimberga. E ai visitatori non sono offerte le tessere di un rompicapo ma i capolavori di uno dei geni della cultura umanistica.
L’itinerario espositivo si ferma alla vigilia del secondo viaggio in Italia di Dürer, un artista profondamente tedesco ma che fu aperto al mondo esterno e capace di conquistare rapidamente un’ampia fama in tutta l’Europa. Centocinquanta opere, di cui 120 provenienti da 12 Paesi, alle quali se ne aggiungono altre cinquanta di contemporanei come Hans Pleydenwurff, Michael Wolgemut e Martin Schongauer. Uno sforzo costato un milione e mezzo di euro, grazie al quale Dürer torna, a distanza di oltre quaranta anni, nella sua città natale dopo la mostra organizzata nel 1971 per il cinquecentesimo anniversario della nascita.
Ad accogliere i visitatori è Dürer in persona. O meglio, la statua in marmo bianco realizzata nel 1882 dallo scultore Friedrich Beer, ritenuta scomparsa durante la seconda guerra mondiale e ritrovata poco meno di due anni fa. L’opera di Beer è ispirata all’«Autoritratto a tredici anni», conservato all’Albertina di Vienna: un disegno a punta di argento che è il punto di partenza della mostra di Norimberga. Poco più che bambino, il figlio dell’orafo ungherese si ritrasse nel 1484 con l’aiuto di uno specchio, inaugurando così precocemente la sua carriera e aprendo una pagina nuova nella storia dell’arte europea.
Sei sezioni tematiche approfondiscono con grande ricchezza di apparati critici la figura di Dürer «come archetipo dell’artista moderno». Sarebbe sbagliato però non citare singolarmente almeno qualcuno dei punti di forza di questo complesso percorso, ricostruito con grande esattezza anche nella chiave della capacità di coniugare la sensibilità nordica con la forza cromatica della pittura italiana. Ecco la «Madonna con bambino» (o «Madonna Haller», dal nome della famiglia di Norimberga che la commissionò), arrivata dalla National Gallery di Washington, che risente degli influssi del primo viaggio a Venezia, Padova e Ferrara, compiuto tra il 1494 e il 1495. Oppure il visionario ciclo di xilografie della «Apocalypsis cum figuris», del 1498. Dalla Galleria degli Uffizi proviene «L’adorazione dei Magi», databile al 1504, opera eccezionale sia per lo studio della prospettiva che per le scelte cromatiche. «Il Dio dei colori», ha scritto il settimanale Der Spiegel.
Una delle novità di questa mostra è stato il lavoro tecnico-scientifico che l’ha preceduta. Nell’arco di tre anni un gruppo di ricercatori ha compiuto una serie di studi in vari musei del mondo con raggi X e fotocamere infrarosse riportando alla luce gli schizzi preliminari e individuando gli strumenti utilizzati da Dürer. I risultati di queste ricerche permettono ai visitatori di capire i segreti dell’artista e di entrare nel suo mondo. È stato, naturalmente, compiuto anche un esame delle condizioni di conservazione delle opere e della loro fragilità, provocata dal passare dei secoli. Non ha rappresentato quindi una sorpresa, anche se è stata accolta con un po’ di delusione e qualche malumore, la decisione presa a Monaco di Baviera dalla Alte Pinakothek di non mandare a Norimberga l’Autoritratto con pelliccia, del 1500. Ma si tratta ugualmente di un appuntamento da non perdere.

27 Mag

Il quadro che divide il Sudafrica

Scritto da Marilisa Palumbo – Corriere della Sera

Sembra una storia sulla libertà di espressione, ma è molto di più. «The Spear» (la lancia), il grande acrilico rosso, nero e giallo che ritrae il presidente del Sudafrica Jacob Zuma in posa alla Lenin e con i genitali in vista, esposto in una galleria di Johannesburg, sembra aver riportato al centro del dibattito pubblico molte ferite del passato di questa giovane democrazia.
È offensivo e irrispettoso delle umiliazioni sofferte dai neri durante l’apartheid, secondo il leader dell’African National Congress, che ha portato la Goodman Gallery in tribunale affinché rimuova il quadro in nome del suo diritto costituzionale alla dignità.
Intanto la galleria è già stata chiusa dopo che l’opera di Brett Murray, artista bianco noto per il suo impegno contro il razzismo, è stata sfregiata da due vandali con pennellate di vernice rosse e nere sul volto e sul pene di Zuma.
Giovedì, durante la prima affollatissima udienza, trasmessa in diretta televisiva nazionale, l’avvocato dell’Anc, Gcina Malindi, ha contestato il parere degli esperti d’arte, secondo i quali è ormai impossibile controllare la riproduzione dell’opera su Internet. Giudizi dell’élite bianca, per il legale, irrispettosi della sensibilità di molti neri sudafricani, che a 18 anni dalla fine dell’apartheid ancora vivono sotto la soglia di povertà e non hanno accesso all’istruzione.
A un certo punto del dibattimento, Malindi è scoppiato in lacrime. Troppi ricordi del passato, ha spiegato l’avvocato che moltissimi anni fa — tra il 1985 e l’89, in un’altra era della storia del Sudafrica — fu portato alla sbarra, accusato dal governo dei bianchi di tradimento e terrorismo. Condannato, passò un anno nell’infame prigione di Robben Island.
Dopo il pianto di Malindi, la corte si è aggiornata a data da destinarsi. Ma le polemiche vanno avanti, con un’altra parte del Paese che non si commuove, e non ci sta a inquadrare il caso solo attraverso la lente razziale. Sono quelli che puntano il dito contro la crescente intolleranza alle critiche dell’Anc e del settantenne Zuma, personaggio controverso, sposato sei volte (attualmente ha quattro mogli), accusato e poi prosciolto di stupro e corruzione.
L’invito a «tutti i sudafricani» a boicottare City Press, reo di aver pubblicato il ritratto senza censure, e ai pubblicitari a ritirare le inserzioni dal quotidiano, ha offerto munizioni a quella fetta della società civile già sul piede di guerra contro il partito di governo, da ultimo per un disegno di legge sulla sicurezza che secondo i critici imbavaglierebbe la stampa.
Marilisa Palumbo

09 Mag

Il quadro d’arte contemporanea più costoso al mondo

Il quadro d’arte contemporanea più costoso al mondo

È dell’artista americano Mark Rothko ed è stato venduto ieri all’asta per 86,9 milioni di dollari

Il quadro Orange, red, yellow dell’artista americano Mark Rothko, è stato venduto all’asta di Christie’s, a New York, per 86,9 milioni di dollari, il prezzo più alto raggiunto da un’opera d’arte contemporanea a un’asta. L’asta ha incassato 388,5 milioni di dollari battendo il record precedente per un’asta di arte contemporanea, stabilito nel 2007.

(Le opere d’arte più care al mondo)

L’opera d’arte contemporanea più costosa finora era stata un Trittico di Francis Bacon, pagato 86,3 milioni di dollari nel 2008, mentre il quadro di Rothko più caro era stato venduto per 72,84 milioni di dollari. La scorsa settimana è stata battuta all’asta da Sotheby’s, sempre a New York, l’Urlo di Edvard Munch: la vendita ha raggiunto i 119,9 milioni di dollari, superando qualsiasi record precedente e rendendo il dipinto l’opera d’arte più costosa mai venduta durante un’asta. Oggi Sotheby’s terrà un’altra importante asta d’arte il cui pezzo forte è Sleeping Girl di Roy Lichtenstein, il cui valore è stimato tra i 30 e i 40 milioni di dollari.

(L’Urlo di Munch animato)

Mark Rothko nacque nel 1903 a Dvinsk, nell’attuale Lettonia, e si trasferì negli Stati Uniti nel 1913. È considerato tra gli artisti più importanti del movimento espressionista astratto e i suoi quadri più famosi sono costituiti da rettangoli di colori sfocati: White and Greens in Blue (1957), Ochre e Red on Red (1954). Negli ultimi anni della carriera i suoi quadri si fecero più cupi. Rothko si uccise nel febbraio del 1970.

Foto: STAN HONDA/AFP/Getty Images

04 Mag

L’«Urlo» che sovrasta la crisi

Scritto da Arianna Di Genova – il manifesto

Record da Sotheby’s a New York. Edvard Munch raggiunge i centoventi milioni

L’angoscia non ha prezzo e non è neanche a tempo determinato, ma eterna. È così che una delle quattro versioni dell’Urlo di Edvard Munch – l’unica in mani private, le altre sono nei musei norvegesi – è volata nella hit parade delle stelle mondiali, calamitando su di sé una cifra «fantasy» come centoventi milioni di dollari (centosette più i diritti), la più alta di tutti i tempi. L’asta di Sotheby’s a New York, attesa come un banco di prova dove tastare il polso alla depressione «da crisi», ha sbalordito il suo parterre di collezionisti assegnando quel quadro dell’uomo sofferente in dodici minuti e a un prezzo che è salito di dieci milioni a ogni battuta di martelletto del banditore Tobias Meyer. Ottanta era la stima iniziale di quello Scream, icona di un mondo che rotola inesorabilmente verso l’alienazione, che è nata per raccontare l’ansia tutta moderna che apriva il Novecento e ha finito per rappresentare la precarietà individuale e collettiva del XXI secolo, incarnando, a suo modo, le teorie di Bauman sulla «liquidità» della società.
Come metro di paragone, per meglio comprendere l’eccezionalità della vendita all’incanto svoltasi nella Grande Mela, basti pensare a un master delle aste quale Picasso che è sceso al secondo posto nella classifica dei record mondiali assegnati prima dell’apparizione di Munch: ieri, la Femme assise dans un fauteuil dell’artista spagnolo (una tarda opera cubista del 1941) è stata acquistata per trenta milioni di dollari, mentre uno dei primi paesaggi di Tahiti di Gauguin non ha raggiunto i nove milioni e un disegno a inchiostro e pennello di Matisse è stato comprato per quasi tre milioni.
L’emaciato signore che cammina portandosi dietro il fardello di un corpo destrutturato in linee sinuose e che tiene premute le mani sulle orecchie per non sentire la natura che «strepita» è stato uno dei punti estremi del pittore norvegese. Dopo, in molte sue opere meno laceranti, è tornata la malinconia simbolista di stampo nordico. E nell’asta newyorkese, Summer Night, quadro che testimonia quel periodo più mainstream non ha avuto la stessa fortuna dell’Urlo ed è rimasto al palo con settecentomila dollari di stima base, lasciando indifferente il pubblico. Il dipinto , che è stato a lungo conteso fra sette collezionisti (rilanciavano al telefono), apparteneva a Petter Olsen. Per suo padre, Munch era un amico di famiglia e Olsen ha spiegato di voler vendere il quadro per permettere anche ad altri di possederlo. La versione passata a Sotheby’s risale al 1895 ed è anche l’unica a mostrare un testo scritto sulla cornice, lo stesso che il pittore aveva precedentemente affidato alle pagine del suo diario: «Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura».

   

22 Apr

Quando le avanguardie cambiarono la Russia

Scritto da Giuseppe Dierna – la Repubblica

Da Kandinskij a Malevic, da Chagall alla Goncarova: a Roma una mostra racconta una grande stagione che finì sotto Stalin
Dopo l´ondata realsocialista che ha invaso Roma l´anno scorso, la mostra sulle Avanguardie russe, nel Museo dell´Ara Pacis fino al 2 settembre, riporta nella capitale la pittura che aveva anticipato e accompagnato in Russia la rivoluzione, per raggiungere culmine e declino negli anni Venti con l´arrivo di Stalin. In pochi anni quegli artisti avevano sostituito il dominante realismo con un catalogo di variegati sperimentalismi, dalle più radicali scomposizioni cubofuturistiche fino allo spiritualismo suprematista e alle ordinate disposizioni geometriche del costruttivismo.
Con loro non mutava solo la storia della pittura ma il volto stesso della Russia, perché – come aveva intimato il poeta Majakovskij nel «Decreto n. 1 sulla democratizzazione delle arti» – loro avevano dipinto «la fronte e il petto delle città, delle stazioni e delle mandrie di vagoni ferroviari eternamente in fuga», riempiendo nel 1920 le vie principali di Vitebsk di quadrati arancioni e rettangoli azzurri.
Erano avanguardie, giustamente al plurale. Perché se il rifiuto del realismo li univa, ben maggiori erano le diversità, e le mostre in comune si trasformavano spesso in litigi o scissioni irreparabili, coi raggruppamenti antagonisti che impiantavano improvvisati cartelli all´ingresso della loro sala, come condòmini irascibili.
Molto bello, in apertura, il quadro di Kazimir Malevic ancora d´impianto cubista, Vita in un grande albergo (1913), dipinto nello stesso anno in cui il pittore progettava le scenografie della Vittoria sul sole del futurista Chlebnikov, dove per la prima volta compare il quadrato nero che rivoluzionerà la pittura, dando vita a quella fase “suprematista” di cui vediamo qui due belle composizioni, agglomerati multicolori di quadrilateri e frammenti di cerchi e linee. Qualche sala più avanti si può invece osservare Nero su nero (1918) di Aleksandr Rodcenko, dove un nero segmento circolare si adagia su uno sfondo a dominanza grigia, opera già nel titolo polemica nei confronti di Malevic e che infatti segnò la rottura tra i due e la nascita di lì a poco del costruttivismo.
Tra le altre tele rimane nella mente un delicato interno di Chagall, Bagno di bimbo (1916), e Aereo su un treno (1913) di Natalja Goncarova, simultaneità futuristica dai tratti infantili, o la Venere (1912) di Michail Larionov, variante primitivista e contadina, testimonianza della persistenza della tradizione nell´avanguardia russa, come gli elementi fiabeschi in Kandinskij (Mosca. Piazza Rossa, 1916) o in un cézanniano come Aristarch Lentulov. E poi i tersi assemblaggi geometrici di Ol´ga Rozanova e Ljubov´ Popova, o l´astrattismo più volumetrico di Aleksandra Ekster, che in seguito prediligerà la scenografia teatrale, e nel ´24 firmerà costumi e scenografie futuristiche per il film fantascientifico Aelita di Protazanov.
La sala dedicata al cubofuturismo è aperta da una foto della tournée di Marinetti in Russia nel 1914, foto che certo non sarebbe piaciuta agli artisti russi (o almeno all´élite raccolta nel gruppo Gileja, da Vladimir Majakovskij ai fratelli Burljuk), che avevano sempre rigettato ogni vicinanza genealogica, come risulta dalla dettagliata ricostruzione di quei difficili rapporti nel bel saggio di Claudia Salaris che arricchisce il catalogo, risollevando l´antica questione delle precedenze e delle influenze, anche se il piccolo olio ancora cubofuturista di Rodcenko, Figura femminile (1915), sembrerebbe tradire influssi proprio di Boccioni, mescolato a elementi primitivisti.
E alla fine del percorso espositivo il visitatore curioso può ancora godersi un breve filmato che riassume la vivacità culturale di quegli anni rivoluzionari e vedere Majakovskij mentre declama i suoi versi o conciona il pubblico, o recita con l´amata Lili Brik in alcuni fotogrammi tratti da Incatenata dal film. Un unico appunto: dispiace trovare nel catalogo (Silvana Editoriale, 128 pagg., 18 euro) assurdità traduttorie che trasformano, tra l´altro, L´arciere dall´occhio e mezzo in un improbabile Bersaglieri da un occhio e mezzo, ma soprattutto una traslitterazione dei nomi russi che urta con l´uso da tempo assestatosi in Italia.

14 Apr

Il manifesto cinematografico sovietico

Scritto da Art Tribune

Il manifesto cinematografico si presenta come oggetto d’arte dalle caratteristiche particolari; trae proprio dalla complessità, che ne regola la realizzazione, forza e vigore affermando la propria indipendenza rispetto alle ordinarie espressioni artistiche, sociali, economiche ed estetiche

A prima vista il manifesto cinematografico sembra essere un oggetto banale, quasi un complemento d’arredo urbano: in realtà oltre ad arredare i muri delle città rappresenta un momento di comunicazione, non solo commerciale, ma emozionale.
Nel manifesto riconosciamo elementi provenienti dal mondo della cinematografia, dal mondo della grafica, dal mondo della creatività artistica, ma il manifesto è anche rappresentazione del momento culturale in cui viene realizzato.
Disponiamo in permanenza di opere realizzate da Anatolij Belskij, Boris Zelenskij, Jakov Ruklevskij, Michail Chazanovskij, Evgenij Grebenshikov , Vassilij Ostrovskij, Vladimir Kononov. Artisti particolarissimi dalla forte personalità individuale capaci di manifestarsi oltre il semplice “illustrare un film”, capaci di creare emozioni e sensazioni con la forza del loro essere artisti.
La storia del manifesto cinematografico sovietico trae le sue origini dagli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre.
Negli anni Venti il cinema sovietico, grazie a «La corazzata Potemkin» di Ejzenstein, raggiunge fama mondiale: in quegli anni i fratelli Stemberg, che per primi intuiscono il potenziale espressivo ed estetico del manifesto, sono le stelle assolute di quel firmamento d’artisti che porta anche il manifesto cinematografico sovietico all’attenzione del mondo. Grafici e scenografi, gli Stenberg non solo ne studiano le possibilità espressive, ma, profondamente integrati nel mondo delle avanguardie artistiche del tempo, realizzano opere in cui composizione, ritmo, forza ne dichiarano apertamente l’appartenenza al mondo dell’arte e del Costruttivismo in particolare.
Molti artisti sostenitori del Costruttivismo e provenienti da altre discipline si riunirono attorno a loro, alcuni ne divennero allievi, tra loro Boris Zelenskij, Jakov Ruklevskij, Vladimir Kononov.
La collezione è composta da studi a tempera che sono la ricerca per la costruzione del manifesto cinematografico e da tempere originali che sono l’immagine di base dalla quale è stato tratto il manifesto.

Milano – dal 03/04/2012 al 04/05/2012
L’arte nella Cinematografia Russa

CHIE ART GALLERY. Viale Premuda 27

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