Scritto da Maria Grazia Calandrone – il manifesto

MOSTRE «Realismi socialisti» al Palaexpò di Roma

Dalle sventagliate di luce delle grandi tele di Aleksandr Deineka all’«autismo corale» che segna le opere degli ultimi decenni, avvolte in un crepuscolo malinconico e polveroso Il suolo della Russia – immaginato qui dall’Occidente attraverso il velo d’oro della Letteratura – sta ancora digerendo le immortali nevi di Pasternak, è rotto dalla oscillazione impietosa dell’ombra di Marina Cvetaeva, fatta morta da un maligno isolamento politico – e insieme è tutto verde del sogno di Majakovskij. L’arte è un risultato compresente. In questo caso gli esiti della bellezza sono mossi da idee e da esperienze in contraddizione. Si pone dunque un quesito morale, perché la bellezza delle utopie splende insieme alla bellezza del loro declino.
Proviamo a leggerli storicamente attraverso la parabola simbolica della luce. Lo slancio di eguaglianza della società umana è inciso nel marmo luminoso delle pagine di Majakovskij, «vuotacessi e acquaiolo» che, poco prima del dubbio suicidio, grida «scavalcherò / i volumetti lirici / e come un vivo / parlerò ai vivi», con quel suo verso «pesante, ruvido, tangibile» come un acquedotto romano, che il poeta vuole consegnare fino all’ultimo «a te, / proletario del nostro pianeta».
La stessa vigorosa incandescenza storica è fissata dai quadri di Aleksandr Deineka, che abbiamo finalmente modo di vedere, vivissimi anch’essi, nella mostra sulla grande pittura sovietica dagli anni Venti ai Settanta in corso fino all’8 gennaio al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Pausa pranzo nel Donbass, per esempio: cinque ragazzi ci corrono incontro dall’acqua, sollevando spruzzi di schiuma. Noi, che guardiamo, siamo la loro riva. Alle loro spalle è tirato il rigone orizzontale e nero di un molo sul quale un merci fila sbuffando, probabilmente carico del carbone che in quegli anni era l’oro del Donec. Il pallone, calciato ad angolo verso di noi, serve a sfogare lo slancio muscolare dell’adolescenza, quella loro bellezza nuda e innocente. Sopra tutta la scena vige una fiamma primaria, una luce gettata alle spalle da una fonte invisibile, una luce «sbagliata», poiché il molo, invece, non posa ombra. L’errore ci lascia intendere che la luce provenga da regioni interiori. Come in Majakovskij, l’infiammazione è tessuta nel muscolo del cuore – viva, frontale e bianca – proiettata dalla mente-faro e dal cuore-fiaccola dell’autore direttamente negli occhi di chi la guarda. E noi, pure macchiati dalla consapevolezza dei posteri, veniamo abbagliati dal segnale a mille watt delle nostre utopie, da una luce di nevi marine che ricorda l’iperventilazione lirica della Livorno di Giorgio Caproni: «ventilata in un maggio / di barche».
Eppure, dopo vent’anni, di quelle sventagliate di luce restava un blando lucore crepuscolare, una sorta di lacca polverosa che si depositava su volti sempre più in primo piano: squadrati come maschere o doverosamente sconfitti. Altrimenti, l’abbaglio di una neve scontornava i corpi. Era avvenuta una progressiva cessazione della coralità, anche la Russia si stava ammalando di quello che Franco Arminio definisce autismo corale. Il sole era meccanico, stava in cielo per forza d’inerzia e non ruotava più, per trascinare sul suo carro gli uomini, verso la libertà. Tutti i ragazzi avevano gettato le loro ombre bellissime su acque che sarebbero state rabbuiate da un massacro morale e tutto lo splendore adesso era spalmato come una pallida infarinatura sulla propaganda di partito.
Appaiono lente opere «antisociali», intimiste, critiche e addirittura oniriche. In un’opera-simbolo come Il lavoro è finito di Viktor Popkov la città non è più benedetta da un sole produttivo ma informe e fantasmatica, misteriosamente accesa da una visione notturna e l’arte è nel corpo addormentato del pittore, richiamo onirico di un altro mondo.
Il senso di questa opera continua in maniera struggente nel cortometraggio Elegia orientale di Aleksandr Sokurov, dove i ragazzini lanciati da Deineka negli anni Trenta sulla schiuma del Donbass sono diventati i protagonisti di un sogno venuti da un mondo doppiamente alieno: un oriente che rappresenta il regno dei morti. Rispondendo all’intervista elegiaca di Sokurov, i morti non sanno che dire sulla propria felicità, sanno solo che non hanno intenzione di tornare se non in forma d’alberi dai frutti rossi, sanno che non hanno bisogno di noi né di salvezza, forse neppure della nostra memoria. Perché essi non hanno più bisogno di esistere. Adesso sono liberi. Leggeri e privi.
Sokurov ha dovuto spingersi nel semibuio dei morti per tentare di esprimere il mondo (onirico, interiore, inconscio – mischiato di ricordi infantili di cicogne e di volti mai visti, attenti come quelli delle icone) che lo perturba e lo sovrasta con una vocazione etimologica. Ha puntato il suo sguardo sulle icone contemporanee di quei volti, impassibili come il viso di dormiente còlto in treno dallo sguardo pieno di compassione di Antonella Anedda: «Poi ho capito che quel paesaggio era pena, che c’era una spina di pena che quel volto accoglieva senza essere assorbito dalla bellezza, né dalla bellezza e alla bellezza confuso. Al viso, a quella icona di vecchio si affidava il gelido mondo». I volti di Sokurov, emersi dalla penombra, accolgono con la stessa inerzia attiva un paesaggio fatto di ricordi, sogno e futuro. Il sogno fabbricatore di eguaglianza sociale è diventato il gesto metafisico di aprire la mano per lasciar andare, è ora l’invocazione di una oltreumana, ontologica libertà umana. L’arte russa, dopo essersi ripiegata nella solitudine degli sconfitti, si è dilatata: nel dettaglio ha scoperto l’infinità di una vocazione alla luce.
I mondi interni restano però sempre inesprimibili, nonostante la crescente perizia nell’utilizzo del medium. Il tema dell’indicibile, affrontato metaforicamente da Sokurov – e ben prima che lo psicoanalista Wilfred Bion lo formalizzasse nelle definizioni degli universi protoverbali – è espresso con perfetto amore da Tolstoj, il quale venne infine illuminato da una pace evangelica: «In tutto, in quasi tutto ciò che ho scritto mi ha guidato il bisogno di riunire dei pensieri che si concatenavano tra loro per esprimere me stesso; ma ciascuno di quei pensieri, se lo si prende di per sé e lo si esprime in parole, perde il proprio senso e si degrada in un modo terribile; se appunto lo si sottrae a quel concatenarsi con gli altri pensieri. E anche quel concatenarsi, dal canto suo, non è qualcosa che appartenga propriamente all’ambito del pensiero (almeno credo), ma a un ambito diverso, non so quale, ed esprimere immediatamente in parole il fondamento di questo concatenarsi è del tutto impossibile; esprimerlo si può solo in modo mediato: usando le parole per descrivere scene, immagini, situazioni».
Ecco spiegata la insoddisfazione dei grandi intorno alla propria opera. Ecco che Anna Karenina, sentendo una finale «impossibilità di lottare», dice «Signore, perdonami tutto!». Perché nessun essere umano è innocente. Eppure lo siamo tutti, per la nostra invincibile aspirazione alla luce, capace di raggiungere talora vette quali l’«altruismo radicale» di Etty Hillesum, che, dalla mischia di fango e terrore del campo di concentramento, lanciava al mondo libero e al futuro simili parole: «Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra». Questa lauda non è fuori luogo: la gratitudine è sempre e ovunque al suo posto dentro un essere umano. Importa rimanere dostoevskianamente idioti, in una adulta parità ai bambini – e compiere continui, ottusi atti di fiducia nella bellezza, stare vicini alla integrità preverbale del mondo dove ogni dettaglio è il mondo. Importa ringraziare.