09 Ott

GUTTUSO LE DUE ANIME DELL’UOMO CHE DIPINSE IL NOVECENTO

9Ott2012

Scritto da FABRIZIO D’AMICO, la Repubblica

Nel centenario della nascita il Complesso del Vittoriano di Roma dedica un’ampia retrospettiva al maestro siciliano.  Cento opere ne rappresentano tutto l’arco creativo


ROMA. «Ho parlato sempre di realismo e di cubismo, sono antiastratto, antidecorativo, antiformalista. Se mai ho avuto vizi di contenuto. Ho sentito di spiegare a me stesso e agli altri in che senso andasse adoperato l’insegnamento dei cubisti (da Cézanne a Picasso, a Braque, a Matisse, a Gris, a Léger) e ho parlato di cubismo come di una necessaria educazione, non soltanto formale, ma educazione che riconducesse all’oggetto, ne agevolasse la identificazione. Se sono caduto in errori di semplicismo è stato sempre in senso realistico (Courbettiano per capirci) mai in senso astrattista»: così scriveva Renato Guttuso a Cesare Brandi nell’aprile del 1947: lo ricorda adesso Fabio Carapezza, che con Enrico Crispolti (e il coordinamento di Alessandro Nicosia) ha curato la grande mostra che al Complesso del Vittoriano celebra il centenario della nascita del pittore siciliano (catalogo Skira). È un momento decisivo, quella primavera del ’47, per la vicenda di Guttuso: che ha, fra i primissimi in Italia, preso atto da tempo del verbo neocubista che dilagherà nel nostro paese all’aprirsi delle frontiere dopo la guerra; che tenta proprio allora di iniziare una sua avventura oltre frontiera: ma che proprio in quei giorni ha visto i giovani di Forma – i “suoi” giovani, per tanti versi: che aveva accolto nella sua casa e nel suo studio, che aveva aiutato a crescere – scavalcarlo in avanti, e dichiararsi “formalisti e marxisti”, in un connubio per lui difficile. Che leggerà, forse perplesso, le parole con le quali Lionello Venturi lo presenterà alla mostra milanese della galleria della Spiga (la prima del Fronte Nuovo delle Arti): «ha potuto così compiere un viaggio di andata e ritorno: dalla natura è salito all’ordine astratto, che è un’altezza con aria rarefatta, e da quell’altezza egli ha potuto vedere la realtà e ritornare alla realtà»; parole che quel bilico fra neocubismo (pur se Venturi lo chiami “ordine astratto”) e intenzione realista sembravano un’altra volta evocare.
Di fronte alla gran pala della Crocifissione, oggi in mostra al Vittoriano, sappiamo d’altronde come il dissidio fra le due vocazioni di Guttuso era già in atto da anni: e in effetti ben prima dell’avvio del quinto decennio del secolo. Esposta (e premiata, fra cento polemiche) al IV Premio Bergamo del ’42, la Crocifissione
tiene assieme tanto: tante memorie diverse – da Cagli a Picasso. E tante intenzioni: in quelle figure angolose e scheggiate, in quel colore dato senza vibrazioni chiaroscurali al suo interno (con una semplificazione “irrealistica” della forma, dunque, che ripensava il nuovo linguaggio di Francia); e all’opposto in quel grido alto di dolore, in quel pianto che sta per divenir rivolta, in quel rosso che batte ovunque lo spazio della rappresentazione, forte come un simbolo. Un grido e un dolore, peraltro, che avevano profondamente segnato la pittura di Guttuso fin dalla sua prima maturità, spesa fra Roma e Milano negli anni Trenta e nella quale s’affollano pensieri e propositi diversi, ancora allacciati – taluni – a Mafai, o memori dei colloqui scambiati a Milano con Birolli (così ad esempio in Gente nello studio, del ’38, qui esposta, e nelle sue nervose, serpentinanti figure abbandonate sul divano; o in certe vedute di Roma e dei suoi tetti infiniti).
Dire una parola agra e spoglia, priva finalmente delle antiche seduzioni novecentesche che l’avevano per un breve momento attratto nei suoi primissimi lavori: di questo va in cerca Guttuso. Ed è al sommo di questo suo modo che viene, presentata al Premio Bergamo del 1940, la Fuga dall’Etna, che gli valse tra l’altro, assieme all’anatema di Ojetti, un significativo riconoscimento di Guido Piovene: «Guttuso è forse l’unico tra gli espositori che abbia un temperamento genuinamente drammatico e tenda a capire e ritrarre la diversità anche sgradevole di corpi, di gesti e di anime». Fra la Fuga dall’Etna e la Crocifissione, in un breve volgere d’anni a cavallo dei due decenni, s’avvia «quel modo tutto proprio di Guttuso di leggere la lezione picassiana in senso espressivo (e persino espressionistico): modo che acquista anche un significato particolare nel panorama delle diverse risposte a Picasso in Italia lungo gli anni Venti e Trenta», ha scritto Crispolti. Un’asprezza che aveva avvistato anche Vittorini, dicendo dell’impegno di Guttuso a spogliare il suo eloquio da ogni facile incanto, a dir secco quanto deve dire, «a dirlo in parole povere».
Un quadro importante e raramente esposto, il Massacro di agnelli del ’47, affrontato al celebre Il merlo – il suo dipinto più “formalista”, davvero a un sol passo dall’astratto – esposto alla Biennale veneziana del ’48 (alla sua prima edizione postbellica, dunque, alla quale Guttuso partecipò con il Fronte Nuovo delle Arti, che aveva contribuito a fondare), segna oggi in mostra l’ultimo momento in cui si danno compresenti le due anime che hanno fecondato assieme l’animo di Guttuso nell’immediato dopoguerra. Seguì il momento forse più difficile del pittore, che si trovò a capo della corrente neo-realista, interpretandone l’intento di dar voce anche con la pittura all’impegno sociale e politico che il Partito Comunista pretendeva dai suoi adepti.
Dalla Pesca del pesce spada, del ’49, alla Zolfara (’53-’55), la mostra documenta questo suo tempo, prima di destinarsi a riguardare la “seconda età” di Guttuso, nella quale s’alternano dipinti intessuti di sensualità (Nuda nello studio, ’59) ad altri che cantano i miti popolari della nuova società (a partire da La spiaggia e da Ragazzi in Vespa), ai numerosi ritratti (fra i quali il bellissimo Ritratto di Mario Schifano, del ’66), sino alle vaste composizioni degli anni Settanta (I funerali di Togliatti, La Vucciria, Caffè Greco) in cui, dietro il colore sempre acceso e quasi urlante, si scopre un Guttuso incline al ricordo, alla memoria degli anni e degli amici di un tempo lontano e, forse, alla malinconia.

 

02 Ott

LA BATTAGLIA CONTRO L’ASTRAZIONE

9Ott2012

Scritto da NELLO AJELLO, la Repubblica

Il pittore, il Pci e i dettami del “realismo socialista”

Un caposcuola e un bersaglio: questo è stato Guttuso per l’arte della sinistra italiana nel dopoguerra. La sua figura era al centro di intensi scontri politico-culturali. Tutto nasceva dal fatto che il Pci, il “suo” Pci, trovava normale adeguarsi, in questo campo, ai suggerimenti teorici provenienti dall’Urss, e ciò implicava un ossequio alla teoria del “realismo socialista”. La direttiva, già diramata nel 1934 dal massimo teorico della materia, Andrej Zdanov, imponeva agli artisti di «operare al servizio del partito». Chi, fra loro, «non è capace di marciare col popolo sarà messo da parte». Così avrebbe ribadito lo stesso Zdanov nel ’46.
Un paese come il nostro – che aveva partecipato ai movimenti del primo Novecento, dalla pittura metafisica al cubismo – aderiva a fatica a una consegna così categorica. Togliatti se ne rendeva conto. Da uomo dell’Ottocento, egli condivideva le direttive del “Paese-guida” in ciò che esse avevano di più ruvidamente conservatore (in un congresso degli scrittori sovietici tenuto a Wroclav nel ’48, si arrivò a dire che la moderna cultura borghese poneva «sul piedestallo gli schizofrenici e i morfinomani, i provocatori e i degenerati»). Il segretario comunista si sforzava così, alla meno peggio, di sottoporre gli artisti a un’obbedienza, sia pure non del tutto ortodossa.
Guttuso apparve dunque l’uomo più adatto a interpretare il progetto. A partire dalla letteratura e dal cinema, la formula del realismo sovietico assumeva da noi le vesti del “neorealismo”. Ma per molti pittori la variante somigliava troppo all’originale, anche perché il segretario del Pci non sempre riusciva a nascondere il proprio consenso allo zdanovismo: in una nota su Rinascita del novembre 1948, egli non si trattenne dal liquidare l’arte moderna dell’Occidente – definita «una raccolta di cose mostruose» – condannando in particolare i suoi esponenti italiani. Di conseguenza gli astrattisti, che avevano aderito sulle prime, insieme ai colleghi di diversa tendenza, a un Fronte nuovo delle arti, diedero vita a un gruppo autonomo, detto “degli Otto”. Erano i pittori Birolli, Corpora, Morlotti, Santomaso,
Turcato, Vedova, e due scultori, Leonardi e Viani. Più tardi Ennio Morlotti avrebbe rimproverato a Guttuso di voler «ficcare in testa a martellate il realismo socialista» ai propri seguaci, che Pietro Consagra giudicava «un’ottusa tresca di sergenti».
Guttuso, in realtà, era molto legato all’ultima grande pittura italiana – da de Chirico a Morandi, da Carrà a Boccioni – e lo spagnolo Pablo Picasso, assai sgradito agli “zdanoviani”, rappresentava per lui un mito al quale rifarsi: non a caso c’era chi lo descriveva intento a produrre «picassate alla siciliana».
Una felice stagione guttusiana era stata in passato il tardo periodo fascista, nel quale taluni suoi quadri, dalla
Fuga dall’Etna alla Crocifissione, simboleggiavano un’acre dissidenza. Poco più tardi, la guerra partigiana lo trovò fra i suoi fervidi interpreti: si ricordi il bel ciclo intitolato Gott mit uns, una netta denunzia della brutalità nazista.
Bastavano simili precedenti ad accreditargli la posizione di “leader” della nuova pittura “di sinistra”? Di fatto Guttuso prese a effigiare nelle sue tele degli anni Cinquanta operai, contadini, solfatari, braccianti e mondine, ed era difficile decidere se lo facesse per intima predilezione o per adeguarsi agli umori del partito. I suoi denigratori optavano, ovviamente, per la seconda ipotesi.
Intanto, lui “faceva scuola”. E a chi, come trent’anni fa Moravia sull’Espresso, gli rimproverava di avere «allievi non alla sua altezza» reagiva citando le risposte noncuranti rivolte da Picasso a chi gli imputava di aver generato tanti “picassini”. E, a proposito del sapore “di partito” che emanavano certe sue opere, tagliava corto: «Se ho fatto brutti quadri, ho voluto farli io. Ma ne ho fatti anche di belli. Comunque, Togliatti non mi ha ordinato niente».
I tempi divennero maturi per il tramonto dell’“impegno” in pittura. Di suo, Guttuso era poi un uomo naturalmente sensibile alla popolarità. Nel 1981, avendo la rivista Capital pubblicato una sua intervista, apparve sull’Unitàla lettera d’un lettore scandalizzato: perché il Maestro – si chiedeva il mittente – s’è confidato con un periodico che è «espressione della nostra controparte politica»?. La reazione del Maestro fu di un’ironia sferzante: «Mettete davanti a quella rivista un “Das” e tutto va posto». “Das Kapital”, come il capolavoro di Marx.

28 Set

ANNI’30 L’ARTE ITALIANA TRA RIVOLTA E RITORNO ALL’ORDINE

28Sett2012

Scritto da FABRIZIO D’AMICO, la Repubblica

A Palazzo Strozzi di Firenze 100 opere raccontano la nascita dello “stile moderno” e le diverse correnti durante il fascismo


FIRENZE. Il precedente è illustre (e come tale è puntualmente ricordato in catalogo da Antonello Negri, curatore della mostra che apre adesso i battenti a Palazzo Strozzi,
Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo), ed è una delle mostre più ampie e memorabili che si siano svolte sulla pittura e la scultura del ventennio: quell’Arte moderna in Italia 1915-1935 che lasciò in eredità, nel 1967, una nuova immagine dell’arte nostra di quel tempo difficile, a lungo sottratta alla memoria storica. Fu quella una mostra che consentì sull’arte italiana fra le due guerre, per la prima volta, uno sguardo libero da retaggi eteronomi (e, ovviamente, in primo luogo politici). Carlo Ludovico Ragghianti, che la volle e l’organizzò, proprio a Firenze e proprio a Palazzo Strozzi, vi convocò un numero impressionante di opere – più di duemila. Ma quasi cinquant’anni sono da allora trascorsi: studi generali e particolari sul periodo, assieme a un collezionismo pubblico e privato a lungo in oculata espansione, e ovviamente alle innumerevoli mostre che li hanno accompagnati, rendono oggi non più necessaria la misura debordante della mostra del ’67 (come dell’altra grande esposizione sugli anni Trenta organizzata a Milano nel 1982): e opportuno invece uno sguardo diverso, più acuminato su taluni aspetti della creatività italiana del tempo (per esempio il design, che si sviluppò parallelamente alle arti così dette maggiori, e che è largamente rivisitato dalla mostra di oggi), e più selettivo in base alla qualità e allo spessore delle singole personalità.
Il centinaio di dipinti oggi riuniti a Palazzo Strozzi, insieme alle opere di scultura, di design, di fotografia che li affiancano (e insieme alle mostre correlate che punteggiano vari luoghi storici di Firenze), basteranno allora a definire il tema, e ad approfondirne qualche aspetto. E forse a dar fiato, nuovamente, ad un interesse, anche mercantile, che è andato negli ultimi anni indubbiamente, e incomprensibilmente, scemando su molte personalità di quel tempo: si pensi ai mediocri e amaramente sorprendenti risultati d’asta che hanno recentemente travolto autori come Sironi o de Pisis, ed insidiano adesso persino figure giudicate “intoccabili” come il de Chirico post-metafisico, o Morandi.
Certo, nei nostri anni Trenta si ricovera tanto; e forse troppo per tirarne la somma in un’unica esposizione. Per primo, l’ultimo frangente del “ritorno al classico” che ha involto le arti di tutta Europa subito dopo la “grande guerra” e l’eclisse delle avanguardie storiche, e che va presto rapidamente mutando i propri panni in un più retrivo “richiamo all’ordine”, guidato dall’adesione ad una nozione del “museo” e dell’“antico” che si fanno vieppiù normativi e soffocanti (e che finiranno per confluire con l’analogo dettame dell’ultima fase, ormai decisamente regressiva, dell’arte di regime). Proprio all’alba di quel tempo, già sul finire del decennio precedente, cresce invece, in molte realtà italiane (a Roma e a Torino anzitutto, con quella che fu battezzata da Roberto Longhi la “scuola di via Cavour”, e con il gruppo dei “Sei”), un senso di rivolta verso quella stanca imitazione di modelli aulici, che guarda in primo luogo alla Francia come metro di una possibile modernità, pur disgiunta dall’insegnamento dell’avanguardia. Nasce anche, allora, il conflitto fra una Biennale di Venezia sempre più legata al gusto paludato e neo-ottocentesco di Antonio Maraini e la Quadriennale di Roma di Cipriano Efisio Oppo, che ha la prima edizione nel 1931, e che nella sua edizione maggiore, del 1935, si erge a
contraltare battagliero e “giovanile” dell’istituzione veneziana.
A Milano, intanto, i primi passi maturi di Fontana e di Melotti, assieme a quelli di un grande outsider come il marchigiano Osvaldo Licini, guidano il manipolo d’astrattisti che, attorno alla Galleria del Milione, formulano per primi – e, per allora, unici in Italia – un linguaggio che s’allinea alle ricerche europee; mentre tutt’intorno ad essi, il “Novecento Italiano” protrae la propria egemonia sul gusto del pubblico. Certo, dunque, non tutto è degno, oggi, d’essere rivisitato, in quella nostra storia: che fu
un’epoca di divaricazioni insanabili, che la mostra odierna documenta, presentando anche, per la prima volta in Italia, un grande telero di Adolf Ziegler –
I quattro Elementi,
rappresentati da altrettanti accademici e leccati nudi femminili – che fu considerato il capolavoro della pittura nazista, e che è qui in ideale opposizione con talune opere che furono esposte, proprio alla fine del decennio e all’avvio del successivo, alle edizioni del Premio Bergamo, uno dei “luoghi” ove si concentrò l’insorgere dell’arte più decisamente avversa alla magniloquenza del regime. Toccata da un realismo e da un espressionismo che avrebbero connotato i modi maggiori della pittura e della scultura fin dentro gli anni della seconda guerra: e ad esempio esemplata, qui, dagli Amici nello studio di Guttuso, dal Seggiolone di Afro o dalla Demolizione di
Mafai; e ancora dal Caos di Birolli, da Sassu, Migneco, fino al primo Morlotti (Natura morta, 1941).
Chiude la mostra una ricca sezione che documenta gli sviluppi dell’arte a Firenze, guardata a muovere dall’opera tarda di Libero Andreotti (Orfeo che canta, 1931), attraverso taluni interpreti del secondo futurismo (Ram e Thayaht), ed esempi delle prove mature di Soffici (La processione, 1933), di Baccio Maria Bacci, di Lorenzo Viani, di Romanelli, e d’un Magnelli nella sua fase più legata alla tradizione, fino ai più giovani Ottone Rosai, Colacicchi, Manzù (David, 1938), e a coloro che a Firenze apportarono, venendo da fuori, un magistero seguito da molti (Felice Carena od Onofrio Martinelli).

23 Set

Anni ’30. Tra mito e modernità

23Sett2013

Scritto da Wanda Lattes, Corriere della Sera

La bellezza nonostante il fascismo Stili e tendenze contrastanti di un decennio che sconvolse l’arte

È una proposta ambiziosa quella della mostra che Firenze ospita da ieri a Palazzo Strozzi. Il titolo stesso, «Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo», si sforza di dimostrare che il periodo demagogico e colorito che precedette in Italia il decennio sanguinoso degli Anni Quaranta, dei bombardamenti, degli arresti, delle deportazioni, fosse anche un ambiente adatto alle arti e alla poesia. In realtà la selva di opere e di nomi portati a simbolo degli anni Trenta conserva il suo valore di contraddizione. Nel «sacro alloro che verdeggiava — secondo gli inni — sul Campidoglio della Roma divina» germogliarono inarrestabili i talenti che nulla avevano a che fare con l’ideologia fascista. Le opere, i personaggi portati alla ribalta sono di per sé la dimostrazione di un «non fascismo» dei protagonisti del decennio. Abbiamo a Milano Sironi, Martini, Carrà, a Torino un Casorati, a Roma Carena, Scipione, Mafai, Cagli, Gentilizi, a Firenze, tanto per dire, Soffici, Rosai, Lega e Viani, mentre nel settore della riproduzione industriale degli oggetti vediamo nascere il design vero e proprio grazie alla genialità di personaggi come Gio Ponti. Particolarmente audace il nucleo dedicato alle riviste culturali di Firenze capace di illustrare sguardi incrociati tra poesia, pittura, musica.
I personaggi di tutto rispetto qui citati forse non vestirono mai l’orbace, i neri indumenti che tanto piacevano al Duce e al suo Starace, ma di sicuro sarebbe difficile ancora oggi legare nomi, genialità, creazioni importanti di gente come Carlo Levi, che poi andò a patire nel confino di Eboli o di un Cagli, costretto come ebreo perseguitato alla fuga in America, a una propensione per il fascismo imperante. Il carattere sovranazionale dell’arte negli anni Trenta, dicono opportunamente gli organizzatori, si coglie comunque in modo più diretto nell’avanguardia futurista e astrattista e nelle opere dei più giovani e nella selezione di quelle nate a Roma o Milano.
Novantasei i dipinti, 17 le sculture, 20 gli oggetti di design esposti in varie sezioni. Si va dunque dai centri artistici con le opere esposte alle Biennali di Venezia e alle Quadriennali di Roma alle stanze dedicate ai giovani con le loro forme anti-accademiche. E poi il tema del viaggio con il gusto europeo degli artisti che avevano Berlino e Parigi come punto di riferimento, quello dell’arte pubblica con i bozzetti e i disegni preparatori delle costruzioni monumentali, spesso retoriche. E ancora il contrasto tra avanguardie e tradizione dopo l’etichetta di «arte degenerata» data alla prima corrente dai nazisti saliti al potere. Infine la sezione del design con una carrellata di oggetti e di immagini di interni tratte da fotografie e film d’epoca e un’ultima dedicata incentrata su Firenze in un incrocio di pittura, poesia, musica.
I curatori (Antonello Negri con Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Giorgio Zanchetti e Susanna Ragionieri) tengono dunque a riconoscere esplicitamente come negli anni Trenta fu combattuta una serie di battaglie artistiche nelle quali erano schierati stili e tendenze, dal classicismo al futurismo, dall’espressionismo all’astrattismo, dall’arte monumentale alla pittura e alla oggettistica da salotto. La scena delle esperienze era complicata dalle comunicazioni di massa e dal design, manifesti, radio, cinema che in mostra sono ampiamente rappresentate.Se l’idea di arte come comunicazione di massa si concentra sull’arte pubblica-muralismo,manifesti la mostra offre confronti con le coeve situazioni europee,quali quelle di Berlino o di Parigi.
Quello degli anni Trenta,ribattono dunque gli ordinatori a scanso di confusioni,è Un decennio cruciale, iniziato con il clima di consenso al regime fascista che subirà dal 1938 la drammatica accelerazione delle leggi razziali per precipitare infine nella catastrofe dell’alleanza bellicosa con la Germania nazista. In questo scenario per gli artisti diventava sempre piu difficile «non schierarsi» come dimostra, ad esempio, il contrasto tra l’allineato Premio Cremona e un premio «fuori dalle righe» come il Bergamo.
Non si può fare a meno di ricordare come un approccio di alto valore critico all’analisi delle tendenze, delle fisionomie degli artisti costretti a misurarsi con un’epoca molto insidiosa fu quello del grande studioso Carlo Ludovico Ragghianti con la sua importantissima mostra degli anni Sessanta, sempre a Palazzo Strozzi (2108 opere), sull’Arte Moderna in Italia.
Wanda Lattes

 

20 Set

PICASSO IL CANNIBALE DELLA PITTURA

20Sett2012

Scritto da LEA MATTARELLA, la Repubblica

MAESTRO DI TUTTI GLI STILI Al Palazzo Reale di Milano una grande rassegna ripercorre la poetica del genio del Novecento attraverso 250 opere provenienti da Parigi


«La pittura è più forte di me, mi fa fare ciò che vuole», diceva Picasso. Ed era davvero così: il più grande artista del Novecento sembrava posseduto dal suo stesso talento, dalla sua passione, da una vitalità esplosiva e una specie di bulimia creativa che lo portava a sperimentare materiali e linguaggi senza fermarsi mai. Una mostra di Picasso, come quella aperta a Palazzo Reale dove torna dopo quasi 60 anni, curata da Anne Baldassari, che raccoglie 250 tra dipinti, disegni, sculture e fotografie, è un viaggio attraverso invenzioni e suggestioni sempre diverse e affascinanti. È vero, insieme a Braque ha avuto l’intuizione del cubismo, e basterebbe questo per consacrarlo tra i grandi. Ma lui era molto di più, un vero monumento alla storia dell’arte e non era qui, sulla strada cubista, che poteva fermarsi. La sua è una vicenda leggendaria dai molti capitoli che a volte, per sua precisa volontà, si accavallano tra loro.
Le opere esposte in questa occasione ripercorrono le tappe di un cammino che lo ha visto non soltanto inventare ma anche guardare, attravermorte,
sare, amare, possedere e trasformare gran parte delle immagini che lo circondavano. Sempre in modo originale, frugando tra le pieghe dell’arte. Tutta. Dalla scultura iberica all’arte africana, dal classicismo al surrealismo, ma non solo. Diceva: «A me la pittura piace tutta, guardo sempre i quadri buoni o cattivi che siano, dal barbiere, nei negozi di mobili, negli alberghi di provincia. Sono come un bevitore che ha bisogno di vino. Purché sia vino non importa che vino». Guardare per lui significava afferrare. E trasfigurare tutto in qualcosa di personale. Non a caso lo hanno definito il Gran Cannibale della pittura. «Io dipingo esattamente come altri scriverebbero la loro autobiografia. Le tele, finite o non finite, sono come le pagine del mio diario». E quelle che si sfogliano a Palazzo Reale sono davvero le più intime: si tratta infatti di opere che arrivano dal Musée Picasso di Parigi, nato dopo la sua
con i materiali conservati nei suoi diversi studi. Quadri, sculture, disegni che lo hanno accompagnato per tutta la vita. E se si crede alla sua dichiarazione «sono il più grande collezionista di Picasso di tutto il mondo», si può essere certi della qualità e dell’importanza della raccolta che viene presentata qui.
Folgoranti gli esordi. Picasso, che è nato a Malaga nel 1881, compie il suo primo viaggio a Parigi nel 1900 e inizialmente è attratto dall’universo di Toulouse-Lautrec, com’è evidente dall’atmosfera di questo Café Concerto.
Ma nel giro di poco tutto cambia: il suo amico, il poeta Carlos Casagemas che era arrivato con lui da Barcellona dove avevano studiato, si uccide per amore. E il giovane Pablo, dopo averlo raffigurato con il buco della pallottola bene in vista sulla tempia e una lampada che emana irradiazioni colorate alla Van Gogh, mette a lutto la sua tavolozza per varcare la soglia di mondi notturni e oscuri abitati da mendicanti, derelitti, emarginati. Come l’intensa Célestine dall’occhio cieco, uno dei capolavori di questa stagione dominata dalla compassione, nota come il suo “periodo blu”. Dopo, eccolo abbandonare i toni freddi e mettere in scena la rivincita del rosa, degli ocra, di un colore caldo che veste ogni cosa.
Les deux frères del 1906 e l’Autoportrait che pare di pietra, sono un esempio straordinario della malinconia picassiana di questi anni in cui compaiono le prime figure di saltimbanchi e l’Arlecchino che diventerà uno dei suoi tanti alter ego sulla tela.
La sterzata dell’anno successivo non riguarda soltanto Picasso, ma investe tutta la pittura occidentale. Dal 1907 in poi la parola bellezza rivestirà davvero un nuovo significato. Nascono le Démoiselle d’Avignon, precedute dagli studi qui esposti che lo mostrano alle prese con modelle e muse scovate – e non cercate – al museo etnografico del Trocadero. Lui lo racconta così: «Era disgustoso, quando vi sono andato, un mercato delle pulci. Puzzava. Ero solo. Volevo andarmene.
Non me ne andavo. Restavo. Ho capito che era molto importante: mi stava accadendo qualcosa. Le maschere non erano sculture come le altre. Per niente. Erano oggetti magici… Contro tutto: contro spiriti sconosciuti, minacciosi. Continuavo a guardare i feticci. Ho capito: anch’io sono contro tutto… Ho capito perché ero pittore…
Les Demoiselles d’Avignon mi devono essere nate quel giorno: non per via delle forme, ma perché era la mia prima tela di esorcismo». Da lì al Cubismo il passo è breve e così, tra spigoli e scomposizioni, si arriva a un rigore che ha bisogno del monocromo dell’Homme à la guitare e dell’Homme à la mandoline.
Ma non basta. Per conquistare la realtà, questa deve penetrare l’arte: legni, carte, chiodi, carte da gioco occupano lo spazio del dipinto, latte tagliate, piegate e colorate diventano sculture. C’è anche una sella di bici con un manubrio a fingere la testa di un toro o uno scolapasta che è quella di una donna. Ma per Picasso è impossibile fermarsi: nel 1914 dipinge, ritrovando una volumetria classica,
Il pittore a la modella.
Una parentesi? Niente affatto. Nel 1917, mentre il cubismo si diffonde come un’epidemia diventando quasi un’accademia, lui che fa? Un viaggio in Italia dove collabora con i Balletti russi e si innamora di Olga, una ballerina, che subito ritrae strizzando l’occhio ad Ingres. Ed è lui stesso a raccontare di averlo fatto perché «non si è stregoni a tempo pieno. Come si potrebbe vivere?». Nascono così, da suggestioni mediterranee e rivolte all’antico, le sue gigantesse che corrono in riva al mare, monumentali anche nella piccola dimensione. E Paul en Arlequin, un capolavoro nella sua risolta incompiutezza. Ma Picasso non la smette di infilarsi in nuove avventure: deforma surrealisticamente strane figure che giocano a palla sulla spiaggia o si accoppiano in maniera bizzarra. L’eros ha un ruolo fondamentale nella sua vita e dunque nella sua arte. La sua amante Marie Thèrese è la protagonista di immagini neocubiste dalla forte componente sensuale, mentre l’altra sua compagna, la fotografa
Dora Maar, è spesso ritratta che piange. Succede nel 1937 quando Picasso sta immaginando Guernica, la sua opera “politica”, insieme al Massacro in Corea
qui esposto. Dopo è un fiorire di bagnanti, donne che si pettinano o leggono, nudi distesi, rivisitazioni dei grandi maestri del passato che anticipano il postmoderno. Fino a quell’ultimo Le jeune peintre dipinto nel 1972 che sembra voler schiacciare il pulsante sul rewind. Per ricominciare ancora.

 

17 Set

I miei sì e il mio no a Picasso

17Sett2012

Scritto da EVGENIJ EVTUSHENKO – Corriere della Sera

«Un maestro di libertà e amore, però sbeffeggiava le donne»

Come poeta rimasi molto colpito da quello che avvenne tra la folla durante i funerali di Stalin. E, tre anni dopo, in un’altra folla che si riversò alla mostra di Picasso, nel museo Puskin, fondato e diretto da Ivan Cvetaev, padre della grandissima poetessa Marina Cvetaeva.
La prima folla era composta da diverse ma tutto sommato brave persone, che, trasformate in rabbiosi animali, si spingevano a vicenda sino a calpestare chi aveva avuto la sfortuna di cadere. La folla stava diventando un mostro che divorava se stesso; poi, fortunatamente, la gente si ravvide e cominciò a intrecciare le braccia. Fra questi, due poeti: German Plisetzkij, autore dello sconvolgente poema La tromba ed io.
La seconda folla era diventata un gigantesco blocco compatto, come avveniva normalmente in Urss. Chiamarla folla sarebbe forse offensivo. La gente irrompeva nelle sale di Picasso, come volesse far breccia nella cortina di ferro. Non ho mai visto tanti occhi intelligenti, a distanza di anni dall’insurrezione popolare sulle barricate e, purtroppo, in seguito vilmente ingannata. Fu la prima volta che potei guardare molti quadri di Picasso in originale, come d’altronde il mezzo milione di visitatori. In seguito, quando Krusciov attaccò i nostri pittori, Picasso rinunciò ad essere premiato. Accettò soltanto quando agli artisti venne garantita l’incolumità.
Ognuno di noi ha il suo personale Picasso e mai nessuno riuscirà a convincerci che quello di un altro possa essere, alla lunga, migliore del nostro. I geni sono sempre universali: ricordo che una volta, in Mauritania, un mio collega d’università mi portò, con fare misterioso, in un angolino appartato e con voce sommersa mi comunicò che, nel suo dottorato, aveva dimostrato in maniera inattaccabile che Otello aveva un carattere mauritano — la qual cosa dimostrava senza dubbio che uccidere la fedifraga in modo così passionale avrebbe potuto farlo solo un mauritano. Aveva trovato il suo prototipo storico: non era stato poi così difficile, perché in realtà la spiegazione era sotto gli occhi di tutti, persino il nome aveva l’assonanza con quello di Shakespeare — lo sceicco al Sabir.
Mi è sempre sembrato e mi sembra tuttora che la genialità di Shakespeare stia nel fatto che il suo Amleto può contemporaneamente essere sia arabo, sia ebreo, sia danese, sia tantissimi russi, mentre, per dire, un personaggio come Aljosha Karamazov, con la sua lancinante confessione e cocente autoaccusa, mi è capitato — figuratevi — di incontrarlo in mezzo alle distese dell’Oklahoma, che bruciava dalla vergogna del suo appena confessato, e non così spaventoso, peccato, che persino lo invidiai un pochino. Ahimé!, neppure l’autoaccusa di noi russi è quella d’una volta. Mentre nella gioiosa Italia, figuratevi, mi capitò d’incontrare una persona tormentata da dilemmi di coscienza d’uno dei personaggi di Faulkner.
Picasso non solo ha cambiato la pittura, ma anche la letteratura, il cinema, la musica, l’architettura, ma non se stesso. Lo si può intravedere nel primo Majakovskij, in Márquez, nei film di Fellini. E così, il mio Picasso è un uomo felice, perché nel 1900 — a diciannove anni — come racconta sua madre, si fece un autoritratto con una didascalia non certo modesta: «Sono il re».
Anche sua madre l’assecondò nel suo egocentrismo: «Se farai il soldato, alla fine diventerai generale. Se farai il prete, arriverai alla sedia gestatoria».
Mentre sapete che cosa ho pensato io? Se esiste il detto «Ama il tuo prossimo come te stesso», forse non c’è, in fondo, niente di male se le persone imparano ad amare gli altri sulla propria pelle. E qui mi accorgo che, sottovoce, assieme a Picasso giustifico anche me stesso. A volte egli non aveva pietà con le donne, anche se, dicono che non lo facesse apposta, ma solo per via della sua diabolica insaziabilità di bellezza: ora le ammirava estasiato, ora le distruggeva con un piacere per me inspiegabile. Eppure guardando con attenzione alcuni suoi ritratti femminili — Dio mio!, non mi dispiace che ne abbia lasciato tanti a Saint-Paul-de-Vence — molti di essi sono una beffa alla grande arte: che più grande è, più caritatevole deve essere. In poche parole, il mio Picasso è quello del periodo blu, quello familiare-circense, oppure quello della donna stanchissima con il ferro da stiro, così teneramente dipinta; o ancora quello del vecchio ebreo con il bambino; oppure del figlio di Paul Cézanne nel ruolo di Arlecchino, in cui egli ha colto qualcosa di pericolosamente fragile, indipendentemente dall’aria spocchiosa. Mentre non posso accettare la mancanza di carità che si trasforma in beffa vendicativa sulle donne, come se per i loro dispetti, lui volesse fargliene ancora di più. Il quadro più significativo di Picasso, per cui si fa perdonare tutti i suoi — talvolta pessimi — scherzi e giochi con pennello e colori, è naturalmente la tela che non si sa perché a volte viene chiamata «Gli acrobati» o «La bambina sulla palla». Tempo indietro questo quadro mi aiutò a comporre una poesia dedicata all’amore, che ho riscritto più volte (Guardando un dipinto di Picasso). Forse una volta mi ha anche salvato la vita.
(Traduzione di Rayna Castoldi)
© Pen Italia

09 Set

Le tele visionarie di Modzelewski alla guida dell’avanguardia polacca

9Sett2012

Scritto da LEA MATTARELLA, la Repubblica

   Jaroslaw Modzelewski presenta fino al 20 settembre a Palazzo Blumenstihl, sede dell’Istituto Polacco di Roma, i suoi dipinti datati dal 2008 a oggi sotto un titolo inconsueto: Retroguardia polacca.
Sono passati più di vent’anni dalla sua prima apparizione romana nella mostra del 1987 dedicata a Gruppa, il movimento che aveva contribuito a fondare, intitolata proprio
Avanguardia polacca.
Oggi con ironia si diverte a mettere la marcia indietro. Nato nel 1955, Modzelewski vive a Varsavia dove insegna pittura all’Accademia di belle arti. E dipinge quadri come quelli mostrati in questa occasione: paesaggi senza nessuno, oppure interni abitati da strani eppure tremendamente familiari personaggi che sembrano mettere in scena veri racconti.
C’è una chiesa infuocata di rossi e ori in cui si aggirano figure che suggeriscono immagini e spazi tra Munch e Bergman. Se il punto di partenza è la realtà, Modzelewski sa come trasfigurarla: lo fa con i gesti esagerati dei Pescatori sordomuti o con i contrasti di colore della sua visionaria Centrale termoelettrica.
10 Ago

Artisti russi del primo ‘900 alla scoperta dell’Ellade

10Ago2012

Scritto da Stefano Garzonio – il manifesto

TESTIMONIANZE «In Grecia con Serov» di Léon Bakst

Famoso pittore e scenografo, Bakst alterna la rivisitazione del mondo classico antico al racconto di tipi e di luoghi, descritti con laconica efficacia
In una celebre tela dal titolo Terror Antiquus (1908) Léon Bakst trasfigura quanto provò una notte a Delfi durante un temporale. Ecco come l’artista interpreta le proprie sensazioni: «Ancora adesso come tremila anni fa, a ogni primavera Zeus scaglia il tuono fra gli stuoli di aquile intimorite dai fulmini e nell’Ade Persefone, pietrificata dal dolore, strabica e terribile, attende assisa sul suo profondo trono di basalto che dalla terra proibita e in fiore scendano a lei creduli, fragili figli del sole – gli uomini…». Nel quadro la terra e tutte le vestigia umane sono inghiottite dagli elementi, mentre nel cielo fiammeggia un fulmine scagliato da Zeus. In primo piano si erge un’enigmatica figura femminile, la kore, che, accennando un vuoto sorriso, pare non curarsi di quanto avviene alle sue spalle.
Quest’opera è senz’ombra di dubbio il punto più alto raggiunto dal grande artista e celebrato scenografo e costumista dei Ballets Russes nell’ambito della sua riscoperta della cultura greca arcaica, liberata delle tante incrostazioni accademiche e neoclassiche che tanta parte avevano ancora nella tradizione artistica russa del tempo. La rivalutazione della ferina e pulsante vitalità dell’arte greca più antica da parte di Bakst è legata a un viaggio intrapreso in Grecia l’anno precedente, il 1907, insieme a un altro celebre pittore del tempo, Valentin Serov. I due artisti si erano recati in Grecia imbarcandosi a Costantinopoli e avevano seguito un itinerario complesso, da Atene a Delfi, Argo, Micene, Corinto, Epidauro, Olimpia, Corfù, soggiornando lungamente a Creta proprio poco tempo dopo la riscoperta della civiltà minoica da parte di Arthur Evans. Il viaggio dei due artisti fu segnato dalla frenetica indagine delle specificità figurative dell’arte greca e dette luogo a una ricchissima messe di schizzi e disegni. Allo stesso tempo i due amici si immersero nella colorita e vivace vita della Grecia del tempo, segnata ora dal turbinio degli spostamenti dei tanti viaggiatori e turisti, ora dalla diffidente inedia del mondo levantino, ora accompagnata dall’aroma del denso e scuro vino ellenico, ora dal languore fumoso dei caffè.
Di questa esperienza Bakst scrisse in un libriccino intitolato Serov i ja v Grecii («In Grecia con Serov»), che uscì a Berlino nel ’23 e di cui Igor’ Stravinskij caldeggiò invano la traduzione in inglese. Ripubblicato in Russia in epoca sovietica solo all’interno di un’antologia di scritti memorialistici su Serov, questo testo viene ora proposto in traduzione italiana curato da Valentina Parisi per la collana «Letteratura di Viaggio» della casa editrice milanese Excelsior 1881(pp. 295, euro 14,50). Un’elegante e informatissima prefazione traccia nei dettagli il ritratto di Léon Bakst artista e uomo, ne ricostruisce i legami con il mondo dell’arte russo, con gli ambienti della rivista «Mir iskusstva» («Il mondo dell’arte») insieme a Nikolaj Benua e Sergej Djagilev, con il teatro drammatico (ad esempio per la messa in scena dell’Ippolito di Euripide nella traduzione di Dmitrij Merezhkovskij), il balletto (l’assidua collaborazione con Djagilev, le scenografie per Ida Rubinstejn, Tamara Karsavina e per la Anna Pavlova, i grandi successi dall’Uccello di fuoco a Sheherazade, Dafni e Cloe, Il Martirio di San Sebastiano, l’Après-midi d’un faune, fino alla Fedra dannunziana) e la coeva letteratura del «Secolo d’Argento» (Bakst ci ha lasciato tanti celebri ritratti di letterati del tempo). Se ne ottiene un ritratto a tutto tondo dove la generale esperienza artistica di Bakst è misurata in primo luogo in relazione alla sua rivisitazione del mondo classico antico. Tra l’altro, molti degli schizzi realizzati dall’artista durante il viaggio e conservati presso il Museo Russo di Pietroburgo sono riprodotti nel volumetto, attribuendogli così i tratti di una vera e propria novità e unicità documentaria. Naturalmente la curatrice si occupa anche dell’altro artista, Valentin Serov, che morirà pochi anni dopo, nel 1911, e ricostruisce i dati salienti della sua esperienza artistica e il suo rapporto con Bakst, la loro sinergia creativa.
Ma il denso testo memorialistico di Bakst è innanzitutto una testimonianza di vita, nella quale i rapporti umani, la quotidianità e nel contempo la scoperta di un mondo esotico e prima solo vaneggiato, sono presentati grazie a una scrittura precisa, essenziale, proprio alla maniera di uno schizzo preparatorio per un quadro. Si passa dal caso del figlio adolescente di un colonnello ritrovato in un bordello, alle grida di un custode quando i due amici pittori salgono a Olimpia sul frontone del tempio di Zeus per toccare con mano le statue di Niobe e dei Niobidi, dalla sensuale danza dell’araba Patha-Patha al contrasto tra le vere donne greche di Delfi («guarda la prima: non si capisce se sia un’antilope, un’antica kore del museo dell’Acropoli») e i tanti levantini, albanesi, balcanici, arabi e siriani («quella fricassea di levantini dall’aria losca che si spacciano per discendenti di Fidia, Socrate, Eschilo»).
Bakst si dimostra letterato fine e elegante, capace di laconica completezza descrittiva, attento al dettaglio psicologico e comportamentale, non estraneo alla nota di colore appena accennata, con lievità e rigore. Da qui le tante descrizioni dei luoghi e dei tipi che hanno sempre come rimando sottinteso quel mondo dell’Ellade omerica che nel suo scultoreo risalto sovrasta il quotidiano e vacuo cicaleccio della vita pulsante d’oggi giorno, quasi a monito in quella estenuante attesa del cataclisma che caratterizza tutta l’esperienza artistica dell’arte europea a cavaliere tra i due secoli. La bella traduzione di Valentina Parisi, l’apparato critico, direi l’amorosa cura, che accompagna il testo con note e precisazioni (fondate anche sulla corrispondenza dei due pittori con le rispettive mogli da dove risalta la diversa ricezione di luoghi e persone da parte dei due artisti) fa di questo libretto un invito a ripercorrere nella Grecia di oggi l’itinerario dei due pittori russi inseguendo l’illusione di riafferrare le loro intuizioni creative.

03 Ago

Ma il patrimonio d’arte italiano non si può vendere

3Ago2013

Scritto da VITTORIO SGARBI – Corriere della Sera

 

Ho letto con attenzione l’articolo di Barbara Rose sulla «Sfida italiana» («la Lettura» di domenica 29 luglio). Non c’è niente da obbiettare. Invitai la Rose fra i segnalatori, anche internazionali, per il Padiglione Italia dell’ultima Biennale di Venezia. Certo, a Venezia, intendevo guardare le espressioni artistiche indipendentemente dal mercato, un’impresa forse impossibile, da cui la provocazione «L’Arte non è cosa nostra». Invece lo è a tal punto che la rappresentazione della Rose, oltre che desolata, è sconfortante: «gli artisti italiani di oggi sono vittime di un sistema corrotto».
Siamo d’accordo. Ma mi chiedo, ad esempio, perché la Rose non abbia ricordato Luigi Serafini, noto anche in America attraverso l’editoria, non le gallerie. E non avrei dimenticato Gino de Dominicis. O Gaetano Pesce che abita a New York. Si dirà: «sono eccentrici». Ma l’arte, lo sa bene la Rose, non è soltanto pittura e scultura. Se poi ci inoltriamo tra gli artisti segreti avrei segnalato Federico Bonaldi, Piero Guccione, Filippo Dobrilla, Andrea Martinelli. Infine, tra gli illustratori (ma veri artisti!) Domenico Gnoli, Tullio Pericoli, Roberto Innocenti.
Parlando dell’assenza di artisti italiani nel panorama internazionale, la Rose scrive: «La scusa dell’Italia è che, data l’importanza del patrimonio nazionale, tutti i fondi disponibili devono essere destinati alla sua conservazione. Pensate quanto gioverebbe all’arte italiana contemporanea la decisione di aprire gli immensi depositi in cui è custodito il patrimonio storico in eccedenza, venderne il contenuto e destinare il ricavato alla promozione degli artisti viventi!».
Difficile sostenere che non sia giusto destinare i fondi alla conservazione. Lo farebbero per primi gli americani. Ma il luogo comune di vendere il patrimonio storico in «eccedenza» è addirittura imbarazzante. La proposta è ricorrente, ma non solo impraticabile, anche oscena. Ma quale «eccedenza!».
Mi spiego , e lo dico da anni: gli acquirenti delle opere d’arte italiane vogliono capolavori. Chiedono Raffaello, Leonardo, Caravaggio, Giotto, preziosi e ovviamente invendibili. Nei depositi stanno i «minori», che hanno, inevitabilmente, «minor» valore e destano «minore» interesse. Come immaginare, e che valore dare, fuori dai luoghi di origine, ad artisti come Matteo da Gualdo, Liberale da Verona, Girolamo da Cremona, Lorenzo da Viterbo, Cola dell’Amatrice, Andrea da Salerno, Girolamo Siciolante da Sermoneta, Giovanni de Mio da Schio. Tutti maestri ragguardevoli ma con valori di mercato relativi e apprezzamento, pur notevole, locale. Nulla, in Italia, è in eccedenza, se non qualche prodotto seriale archeologico, di modestissimo interesse per qualunque collezionista o museo.
La strada, dunque, è chiusa ed è inimmaginabile che possa produrre effetti utili per la promozione degli artisti viventi, in larghissima misura comunque meno significativi dei maestri storici locali.
Inaccettabile è anche un’altra considerazione della Rose: «In questo contesto desolante, ha operato Nicola Spinosa, che ha passato gli ultimi giorni da soprintendente al polo museale a difendere, con le unghie e con i denti, il prezioso Caravaggio custodito nelle gallerie di Capodimonte».
È vero esattamente il contrario. Fu un errore e una prepotenza. Il Caravaggio di cui parla la Rose appartiene alla Chiesa di San Domenico di Napoli, per cui fu dipinto: è «La flagellazione». La chiesa custodiva anche l’«Annunciazione» di Tiziano, pure «rapita» dalla Sovrintendenza, con diversi pretesti di tutela, nonostante che l’ente proprietario sia il F.E.C. (Fondo Edifici di Culto) del ministero degli Interni.
Allo stesso modo, a Napoli, nel Pio Monte, è conservata un’altra tela di Caravaggio, «Le opere di Misericordia». Nessuno penserebbe di trasferirla a Capodimonte. Così come — Barbara Rose ne converrà — sembrerebbe assurdo depositare alla Galleria Borghese i dipinti di Caravaggio di San Luigi dei Francesi, o all’Accademia di Venezia (come già fu fatto) l’«Assunta» di Tiziano ai Frari. Si dirà: ma Napoli è meno sicura. Eppure le sue chiese sono piene di opere d’arte straordinarie.
Si tratta di un’ingiustizia. Nessun valore è più degno di essere salvaguardato della pertinenza di un’opera alla sua sede. I musei sono l’extrema ratio, sedi terminali, in assenza di alternative. Cimiteri. Già abbiamo dovuto sacrificare molti capolavori per i musei americani.

24 Lug

Il quadro invendibile ma tassato

Scritto da PAOLO VALENTINO – Corriere della Sera

Per l’opera di Rauschenberg il fisco chiede 29 milioni di dollari dal nostro inviato

NEW YORK — Se un oggetto non può essere venduto, ha ancora un valore di mercato? E se poi l’oggetto invendibile in questione è l’opera di un grande artista del Novecento, com’è possibile fissarne una quotazione in denaro, che non sia arbitraria e soprattutto priva di ogni ragion d’essere?
In una surreale disputa, dove la teoria economica collide con la cecità burocratica, il buon senso fa a pugni con l’accanimento fiscale e il diritto tributario ignora le leggi ambientaliste, gli eredi di una delle più celebri galleriste di New York sono ai ferri corti con l’Internal revenue service, il fisco americano, che vorrebbe da loro una trentina di milioni di dollari, per un dipinto che la legge proibisce loro di vendere.
Oggetto della discordia, un capolavoro dell’arte figurativa contemporanea: realizzato nel 1959 da Robert Rauschenberg, Canyon è una delle più celebri combinazioni di pittura e scultura, che furono la cifra inconfondibile del maestro americano, morto nel 2008.
Parte della collezione da un miliardo di dollari appartenuta a Ileana Sonnabend, storica dealer dell’artista scomparsa nel 2007, l’opera ha una storia speciale e controversa.
Include infatti un rapace impagliato: l’aquila calva simbolo degli Stati Uniti, protetta da una legge del 1940, che ne proibisce il possesso, la vendita, l’acquisto, il baratto e il trasporto viva o morta. Tecnicamente, dunque, la sua presenza nel dipinto lo ha reso illegale sin dalla nascita. Nel 1998 Rauschenberg fu costretto a fornire una dichiarazione notarile, confermando che l’uccello era stato ucciso e impagliato da un soldato dei Rough Riders, il reggimento volontario di cavalleria, che partecipò alla guerra ispanoamericana del 1898, guidato dal futuro presidente Teddy Roosevelt. Molto prima dunque che l’aquila dalla testa bianca fosse posta sotto protezione federale. La stessa gallerista, che l’aveva acquistato, ha potuto conservarne la proprietà solo a condizione che Canyon continuasse ad essere esposta in un museo pubblico: l’opera è infatti in prestito permanente al Metropolitan Musem of Art, che paga l’assicurazione.
Per Nina Sundell e Antonio Homem, eredi dell’intera collezione Sonnabend, il lascito ha significato un conto da 471 milioni di dollari con l’Irs, già saldato con una parziale vendita delle opere, che ha fruttato loro 600 milioni. Ma su Canyon, giusta la valutazione della casa d’aste Christie’s basata sul fatto che avrebbero commesso un crimine anche solo a provare di venderla, dunque della sua improponibilità sul mercato, i due hanno con ragione dichiarato un valore monetario pari a zero dollari.
L’Internal revenue service la pensa diversamente. Valuta l’opera invendibile di Rauschenberg ben 65 milioni di dollari e chiede agli eredi tasse per 17,5 milioni, aggiungendo beffa al danno con una multa da 11,7 milioni per aver fornito una valutazione inaccurata, cioè falsa. In tutto, fanno 29,2 milioni di dollari.
La famiglia ha fatto ricorso contro l’ingiunzione ai tribunali. Le parti si incontreranno a Washington il mese prossimo. E il negoziato già si annuncia come un impossibile processo di disambiguazione dall’esito imprevedibile. Comunque vada a finire, si annunciano grandi parcelle per i legali.