9Ott2012

Scritto da FABRIZIO D’AMICO, la Repubblica

Nel centenario della nascita il Complesso del Vittoriano di Roma dedica un’ampia retrospettiva al maestro siciliano.  Cento opere ne rappresentano tutto l’arco creativo


ROMA. «Ho parlato sempre di realismo e di cubismo, sono antiastratto, antidecorativo, antiformalista. Se mai ho avuto vizi di contenuto. Ho sentito di spiegare a me stesso e agli altri in che senso andasse adoperato l’insegnamento dei cubisti (da Cézanne a Picasso, a Braque, a Matisse, a Gris, a Léger) e ho parlato di cubismo come di una necessaria educazione, non soltanto formale, ma educazione che riconducesse all’oggetto, ne agevolasse la identificazione. Se sono caduto in errori di semplicismo è stato sempre in senso realistico (Courbettiano per capirci) mai in senso astrattista»: così scriveva Renato Guttuso a Cesare Brandi nell’aprile del 1947: lo ricorda adesso Fabio Carapezza, che con Enrico Crispolti (e il coordinamento di Alessandro Nicosia) ha curato la grande mostra che al Complesso del Vittoriano celebra il centenario della nascita del pittore siciliano (catalogo Skira). È un momento decisivo, quella primavera del ’47, per la vicenda di Guttuso: che ha, fra i primissimi in Italia, preso atto da tempo del verbo neocubista che dilagherà nel nostro paese all’aprirsi delle frontiere dopo la guerra; che tenta proprio allora di iniziare una sua avventura oltre frontiera: ma che proprio in quei giorni ha visto i giovani di Forma – i “suoi” giovani, per tanti versi: che aveva accolto nella sua casa e nel suo studio, che aveva aiutato a crescere – scavalcarlo in avanti, e dichiararsi “formalisti e marxisti”, in un connubio per lui difficile. Che leggerà, forse perplesso, le parole con le quali Lionello Venturi lo presenterà alla mostra milanese della galleria della Spiga (la prima del Fronte Nuovo delle Arti): «ha potuto così compiere un viaggio di andata e ritorno: dalla natura è salito all’ordine astratto, che è un’altezza con aria rarefatta, e da quell’altezza egli ha potuto vedere la realtà e ritornare alla realtà»; parole che quel bilico fra neocubismo (pur se Venturi lo chiami “ordine astratto”) e intenzione realista sembravano un’altra volta evocare.
Di fronte alla gran pala della Crocifissione, oggi in mostra al Vittoriano, sappiamo d’altronde come il dissidio fra le due vocazioni di Guttuso era già in atto da anni: e in effetti ben prima dell’avvio del quinto decennio del secolo. Esposta (e premiata, fra cento polemiche) al IV Premio Bergamo del ’42, la Crocifissione
tiene assieme tanto: tante memorie diverse – da Cagli a Picasso. E tante intenzioni: in quelle figure angolose e scheggiate, in quel colore dato senza vibrazioni chiaroscurali al suo interno (con una semplificazione “irrealistica” della forma, dunque, che ripensava il nuovo linguaggio di Francia); e all’opposto in quel grido alto di dolore, in quel pianto che sta per divenir rivolta, in quel rosso che batte ovunque lo spazio della rappresentazione, forte come un simbolo. Un grido e un dolore, peraltro, che avevano profondamente segnato la pittura di Guttuso fin dalla sua prima maturità, spesa fra Roma e Milano negli anni Trenta e nella quale s’affollano pensieri e propositi diversi, ancora allacciati – taluni – a Mafai, o memori dei colloqui scambiati a Milano con Birolli (così ad esempio in Gente nello studio, del ’38, qui esposta, e nelle sue nervose, serpentinanti figure abbandonate sul divano; o in certe vedute di Roma e dei suoi tetti infiniti).
Dire una parola agra e spoglia, priva finalmente delle antiche seduzioni novecentesche che l’avevano per un breve momento attratto nei suoi primissimi lavori: di questo va in cerca Guttuso. Ed è al sommo di questo suo modo che viene, presentata al Premio Bergamo del 1940, la Fuga dall’Etna, che gli valse tra l’altro, assieme all’anatema di Ojetti, un significativo riconoscimento di Guido Piovene: «Guttuso è forse l’unico tra gli espositori che abbia un temperamento genuinamente drammatico e tenda a capire e ritrarre la diversità anche sgradevole di corpi, di gesti e di anime». Fra la Fuga dall’Etna e la Crocifissione, in un breve volgere d’anni a cavallo dei due decenni, s’avvia «quel modo tutto proprio di Guttuso di leggere la lezione picassiana in senso espressivo (e persino espressionistico): modo che acquista anche un significato particolare nel panorama delle diverse risposte a Picasso in Italia lungo gli anni Venti e Trenta», ha scritto Crispolti. Un’asprezza che aveva avvistato anche Vittorini, dicendo dell’impegno di Guttuso a spogliare il suo eloquio da ogni facile incanto, a dir secco quanto deve dire, «a dirlo in parole povere».
Un quadro importante e raramente esposto, il Massacro di agnelli del ’47, affrontato al celebre Il merlo – il suo dipinto più “formalista”, davvero a un sol passo dall’astratto – esposto alla Biennale veneziana del ’48 (alla sua prima edizione postbellica, dunque, alla quale Guttuso partecipò con il Fronte Nuovo delle Arti, che aveva contribuito a fondare), segna oggi in mostra l’ultimo momento in cui si danno compresenti le due anime che hanno fecondato assieme l’animo di Guttuso nell’immediato dopoguerra. Seguì il momento forse più difficile del pittore, che si trovò a capo della corrente neo-realista, interpretandone l’intento di dar voce anche con la pittura all’impegno sociale e politico che il Partito Comunista pretendeva dai suoi adepti.
Dalla Pesca del pesce spada, del ’49, alla Zolfara (’53-’55), la mostra documenta questo suo tempo, prima di destinarsi a riguardare la “seconda età” di Guttuso, nella quale s’alternano dipinti intessuti di sensualità (Nuda nello studio, ’59) ad altri che cantano i miti popolari della nuova società (a partire da La spiaggia e da Ragazzi in Vespa), ai numerosi ritratti (fra i quali il bellissimo Ritratto di Mario Schifano, del ’66), sino alle vaste composizioni degli anni Settanta (I funerali di Togliatti, La Vucciria, Caffè Greco) in cui, dietro il colore sempre acceso e quasi urlante, si scopre un Guttuso incline al ricordo, alla memoria degli anni e degli amici di un tempo lontano e, forse, alla malinconia.