Scritto da Melisa Garzonio – Corriere della Sera

L’enigma dei sentimenti I colori dell’inquietudine e del sogno come riparo dalle tempeste del futuro

Parigi, 1891. Sotto le luci della galleria Le Barc de Boutteville, il bel mondo si gode la prima mostra dei Nabis, i «profeti» della seconda generazione simbolista, un gruppo di «facinorosi» che ha sostituito l’ultima Ninfea di Monet con una pittura immateriale, lontana dagli occhi e più vicina al cuore. Agli entusiasmi dei cugini francesi, Milano risponde con la prima Triennale di Brera, un evento di portata storica che segna l’avvio ufficiale di un Divisionismo nuovo, rimasto tale nella tecnica ma più dolce nello stile e rarefatto nei contenuti. Non tutti gradiscono, però. Al punto da inscenare plateali proteste davanti a una tela di Gaetano Previati giudicata troppo «simbolista». S’intitola «Maternità», raffigura una madre che abbraccia teneramente il suo bambino circondata da una schiera di angeli in preghiera, con le ali abbassate, quasi in gesto di protezione. È un capolavoro.

Ma ai nostalgici del vero «scapigliato» — la cruda realtà resa con tinte sfacciate e dissolute — quell’immagine paradisiaca quasi persa in un indefinibile grigioazzurro diviso in filamenti sottili come tentacoli di medusa, suona come una provocazione. Se la madre di Previati è troppo onirica, la versione più realista proposta da «Le due madri» di Giovanni Segantini suscita, invece, ampi consensi. Il maestro di Arco ha dipinto un interno di stalla rischiarato dalla luce soffusa di una lanterna. Il tema che accosta la giovane mamma a una mucca che ha vicino, sullo strame, il suo vitello, è fortemente simbolico ma non perde di vista il mondo reale dei contadini, il lavoro che è fatica ma ti guadagna il paradiso. Previati sogna, Segantini, ancorato alle sue montagne, prega.

Le due grandi tele che all’epoca della Triennale divisero gli animi, di nuovo vis-à-vis e affiancate alle due plastiche maternità di Adolfo Wildt e Pietro Canonica, introducono al percorso di un’eccezionale mostra, la prima dedicata al Simbolismo in Italia, visibile dal 1° ottobre al 12 febbraio a Padova, nelle antiche sale di Palazzo Zabarella. Promossa dalla Fondazione Bano, curata da Fernando Mazzocca e Carlo Sisi con Maria Vittoria Marini Clarelli, ospita un centinaio di opere, prestito di collezioni private e musei italiani e stranieri. Cosa raccontano queste opere appare chiaro visitando le otto sezioni a tema, momenti topici di un percorso che parte dal Realismo dell’ultimo decennio degli anni Ottanta e si chiude con le poetiche del Decadentismo, alla vigilia della prima guerra mondiale.

I temi condivisi dai simbolisti riguardano i grandi valori dell’umanità: il senso della vita, la morte, il sogno, il mito, il mistero, l’enigma, la religione, valori che gli artisti sentivano minacciati dal rullo compressore del progresso scientifico e tecnologico. E allora, che si salvino almeno i sentimenti, i propri e gli altrui, rubati al segreto del cuore e portati alla luce attraverso il ritratto psicologico. Quello che Troubetzkoy ha realizzato di Segantini colpisce nel segno. Così fa Pellizza da Volpedo, quando esibisce la propria angoscia mascherata con teschi, edera, violette e altre diavolerie. Dal cilindro di Alberto Martini (fantastiche le sue opere grafiche raccolte nella sezione in bianco e nero, e il «Notturno» e la «Diavolessa» della Sala del Sogno della Biennale del 1907, ricostruita in mostra) escono mani nervose, spiritelli alati e aguzzi profili di città chiaroscurati da un’eclissi di luna. Diceva le peintre-magicien: «Chi vive nel sogno è un essere superiore, chi vive nella realtà uno schiavo infelice».

E la natura? È madre o matrigna? Martini, così come Plinio Nomellini, Vittore Grubicy, Nino Costa, Mario de Maria e il più grande di tutti, lo svizzero Arnold Böcklin, il padre nobile dei simbolisti (in mostra una versione dall’«Isola dei morti» di Otto Vermehren), condividevano lo stesso principio di Henry-Frédéric Amiel: «Un paesaggio è uno stato dell’anima». Così, a seconda del mood, gli ipersensibili artisti di fine secolo dipingevano ora la nebbia e i fulmini, ora il vento e le tormente di neve (e qui la vince il trio Previati, Pellizza e De Grubicy) facendo della natura la cassa di risonanza dei loro inconfessati patimenti. E la donna? È una strana creatura dalle mille sfaccettature, ora fata ora strega, un po’ musa e un po’ erinni, una sfinge (Bistolfi), una Cleopatra (Previati), una Sirena (Sartorio). Fino a diventare emblematico simbolo di amore e morte nelle opere capitali dei due capiscuola del Simbolismo tedesco transitati alle Biennali di Venezia: «Il peccato» col serpente di Franz von Stuck e la «Giuditta con la testa di Oloferne» di Gustav Klimt. Più spiritoso, Giulio Aristide di Sartorio, in un dipinto commissionato dal conte Gegé Primoli, se la cava dividendo l’altra metà del cielo in due, «Le vergini savie e le vergini stolte». Lo stile immaginifico ispirato alla pittura preraffaellita entusiasmerà Gabriele d’Annunzio. Anche perché tra le vergini (stolte), figurava il ritratto della diletta moglie, Maria Hardouin di Gallese.