17Sett2012

Scritto da EVGENIJ EVTUSHENKO – Corriere della Sera

«Un maestro di libertà e amore, però sbeffeggiava le donne»

Come poeta rimasi molto colpito da quello che avvenne tra la folla durante i funerali di Stalin. E, tre anni dopo, in un’altra folla che si riversò alla mostra di Picasso, nel museo Puskin, fondato e diretto da Ivan Cvetaev, padre della grandissima poetessa Marina Cvetaeva.
La prima folla era composta da diverse ma tutto sommato brave persone, che, trasformate in rabbiosi animali, si spingevano a vicenda sino a calpestare chi aveva avuto la sfortuna di cadere. La folla stava diventando un mostro che divorava se stesso; poi, fortunatamente, la gente si ravvide e cominciò a intrecciare le braccia. Fra questi, due poeti: German Plisetzkij, autore dello sconvolgente poema La tromba ed io.
La seconda folla era diventata un gigantesco blocco compatto, come avveniva normalmente in Urss. Chiamarla folla sarebbe forse offensivo. La gente irrompeva nelle sale di Picasso, come volesse far breccia nella cortina di ferro. Non ho mai visto tanti occhi intelligenti, a distanza di anni dall’insurrezione popolare sulle barricate e, purtroppo, in seguito vilmente ingannata. Fu la prima volta che potei guardare molti quadri di Picasso in originale, come d’altronde il mezzo milione di visitatori. In seguito, quando Krusciov attaccò i nostri pittori, Picasso rinunciò ad essere premiato. Accettò soltanto quando agli artisti venne garantita l’incolumità.
Ognuno di noi ha il suo personale Picasso e mai nessuno riuscirà a convincerci che quello di un altro possa essere, alla lunga, migliore del nostro. I geni sono sempre universali: ricordo che una volta, in Mauritania, un mio collega d’università mi portò, con fare misterioso, in un angolino appartato e con voce sommersa mi comunicò che, nel suo dottorato, aveva dimostrato in maniera inattaccabile che Otello aveva un carattere mauritano — la qual cosa dimostrava senza dubbio che uccidere la fedifraga in modo così passionale avrebbe potuto farlo solo un mauritano. Aveva trovato il suo prototipo storico: non era stato poi così difficile, perché in realtà la spiegazione era sotto gli occhi di tutti, persino il nome aveva l’assonanza con quello di Shakespeare — lo sceicco al Sabir.
Mi è sempre sembrato e mi sembra tuttora che la genialità di Shakespeare stia nel fatto che il suo Amleto può contemporaneamente essere sia arabo, sia ebreo, sia danese, sia tantissimi russi, mentre, per dire, un personaggio come Aljosha Karamazov, con la sua lancinante confessione e cocente autoaccusa, mi è capitato — figuratevi — di incontrarlo in mezzo alle distese dell’Oklahoma, che bruciava dalla vergogna del suo appena confessato, e non così spaventoso, peccato, che persino lo invidiai un pochino. Ahimé!, neppure l’autoaccusa di noi russi è quella d’una volta. Mentre nella gioiosa Italia, figuratevi, mi capitò d’incontrare una persona tormentata da dilemmi di coscienza d’uno dei personaggi di Faulkner.
Picasso non solo ha cambiato la pittura, ma anche la letteratura, il cinema, la musica, l’architettura, ma non se stesso. Lo si può intravedere nel primo Majakovskij, in Márquez, nei film di Fellini. E così, il mio Picasso è un uomo felice, perché nel 1900 — a diciannove anni — come racconta sua madre, si fece un autoritratto con una didascalia non certo modesta: «Sono il re».
Anche sua madre l’assecondò nel suo egocentrismo: «Se farai il soldato, alla fine diventerai generale. Se farai il prete, arriverai alla sedia gestatoria».
Mentre sapete che cosa ho pensato io? Se esiste il detto «Ama il tuo prossimo come te stesso», forse non c’è, in fondo, niente di male se le persone imparano ad amare gli altri sulla propria pelle. E qui mi accorgo che, sottovoce, assieme a Picasso giustifico anche me stesso. A volte egli non aveva pietà con le donne, anche se, dicono che non lo facesse apposta, ma solo per via della sua diabolica insaziabilità di bellezza: ora le ammirava estasiato, ora le distruggeva con un piacere per me inspiegabile. Eppure guardando con attenzione alcuni suoi ritratti femminili — Dio mio!, non mi dispiace che ne abbia lasciato tanti a Saint-Paul-de-Vence — molti di essi sono una beffa alla grande arte: che più grande è, più caritatevole deve essere. In poche parole, il mio Picasso è quello del periodo blu, quello familiare-circense, oppure quello della donna stanchissima con il ferro da stiro, così teneramente dipinta; o ancora quello del vecchio ebreo con il bambino; oppure del figlio di Paul Cézanne nel ruolo di Arlecchino, in cui egli ha colto qualcosa di pericolosamente fragile, indipendentemente dall’aria spocchiosa. Mentre non posso accettare la mancanza di carità che si trasforma in beffa vendicativa sulle donne, come se per i loro dispetti, lui volesse fargliene ancora di più. Il quadro più significativo di Picasso, per cui si fa perdonare tutti i suoi — talvolta pessimi — scherzi e giochi con pennello e colori, è naturalmente la tela che non si sa perché a volte viene chiamata «Gli acrobati» o «La bambina sulla palla». Tempo indietro questo quadro mi aiutò a comporre una poesia dedicata all’amore, che ho riscritto più volte (Guardando un dipinto di Picasso). Forse una volta mi ha anche salvato la vita.
(Traduzione di Rayna Castoldi)
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