Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

 Il Cardinale invidiava l’artista straccione ma libero

Quando, nel 1592, il ventunenne Caravaggio arrivò a Roma da Milano, era uno sconosciuto fra le centinaia di pittori che tentavano di guadagnarsi da vivere in una città stremata dalla carestia e dalla crisi alimentare; secondo i suoi biografi Mancini e Bellori, appariva «estremamente bisognoso et ignudo», «senza recapito e senza provedimento» e «senza denari».
Come fece uno così a farsi strada nella giungla della plebaglia romana? La sua pittura era dura, secca, e senza abbellimenti riproduceva la parte peggiore della realtà: bari, prostitute, zingare, pellegrini straccioni, frutta marcia, piedi nudi e sporchi. Chi poteva comprare quadri così, contro ogni regola del decoro? Chi furono i collezionisti che videro in Caravaggio un genio e lo tirarono fuori dalla povertà provando, inutilmente, a imporlo anche alle gerarchie ecclesiastiche, ligie alle regole della Controriforma e dell’Inquisizione?
Il primo fu il cardinal Francesco Maria Del Monte. Un diplomatico consumato, un gay sui quarantacinque anni che, vista la facilità con cui si veniva messi al rogo, conduceva una vita riservatissima. In qualità di rappresentante dei Medici a Roma, tutto sapeva e tutto conosceva, ma nessuno poteva dire altrettanto su di lui. Sotto l’amabilità e le belle maniere, proteggeva il suo privato con reticenza assoluta. Suonava, amava la musica, il teatro e la scienza; allestì una distilleria alchemica nella villa del giardino Ludovisi, fu il primo a possedere il nuovo telescopio dell’amico Galileo, ma riuscì a non compromettersi nemmeno quando difese lo scienziato durante i guai con l’Inquisizione. Era una specie di Gianni Letta: il potere passava dalle sue mani, ma non lo esercitava. E soprattutto, in quella Roma grigia, dove era pericoloso pensare e parlare, dove Clemente VIII faceva bruciare vivo Giordano Bruno e combatteva una feroce battaglia contro prostituzione e sodomia, «il vizio indicibile», Del Monte praticava l’arte del tacere e della discrezione, senza mai sollevare un pettegolezzo su di sé.
Ebbene, fu proprio un burocrate così che si prese in casa un pittore povero in canna, sporco (le cronache del tempo dicono che si lavava pochissimo, anche dopo il successo) e attaccabrighe come Caravaggio. Lo ospitò nel suo palazzo Madama e lo protesse facendolo uscire di prigione ogni volta che gli sbirri lo arrestavano. Probabilmente, il compassato cardinal Del Monte vedeva in Caravaggio quella libertà e quella noncuranza verso la trasgressione che egli non si poteva permettere.
I Giustiniani, invece, i secondi grandi collezionisti di Caravaggio, vedevano forse in lui «la scoperta» à la page del loro prestigioso vicino di casa, il Del Monte: dei due fratelli di una famiglia di banchieri genovesi che aveva avuto il controllo delle finanze degli Asburgo di Spagna, Benedetto era cardinale, talmente intimo con il re di Francia Enrico IV che questi lo chiamava mon cousin, mentre Vincenzo era l’uomo più ricco di Roma da cui dipendeva il deficit del Papa. Aveva quindici anni meno del suo amico Del Monte ed era tutt’un altro tipo: sposato, padre, amante della caccia, borghese per spirito e attività, aspirante al titolo nobiliare, che poi ottenne. Quando morì, Vincenzo aveva accumulato quindici tele di Caravaggio, mentre Del Monte ne possedeva solo otto.
Gli altri nobili collezionisti romani furono i Mattei, mentre i Colonna, marchesi di Caravaggio, imparentati con i Doria principi di Genova, furono soprattutto i protettori che stesero intorno al pittore assassino, condannato alla pena capitale dal Papa, una rete di aiuti estesa fino a Malta. Senza questi ricchi e potenti, dal comportamento eccentrico rispetto ai loro pari, quel «cervello stravantissimo» di Caravaggio non ce l’avrebbe fatta. Gli opposti hanno sempre qualcosa che li attrae e il collezionismo di oggi continua a dimostrare la regola.