Ultimo aggiornamento Venerdì 14 Ottobre 2011 05:58 Scritto da FRANCESCA BONAZZOLI – Corriere della Sera

L’iconografia trae spunto dai classici del Rinascimento

Ignorato dalle storie dell’arte o al massimo archiviato come il manierismo che mise la pietra tombale sulle sperimentazioni dell’avanguardia russa del primo ventennio del Novecento, il Realismo socialista è perlopiù considerato un «incidente» imposto dal totalitarismo piuttosto che uno stile artistico a tutti gli effetti cui aderirono migliaia di pittori e scultori in un territorio vastissimo, esteso anche alla Cina dove gli artisti che oggi piacciono all’art system internazionale, venduti in Occidente per milioni di dollari, ne sono gli allievi diretti.

Dimenticano, i suoi censori, che non solo, in quegli stessi anni, l’intera Europa fu attraversata da diversi realismi e «ritorni all’ordine» (dalla Nuova Oggettività tedesca al movimento italiano di Novecento al realismo americano, solo per citarne tre); ma anche e soprattutto che il realismo socialista si inserisce a pieno titolo nella sequenza degli «ismi» in cui siamo soliti scandire la storia dell’arte proprio perché ne fu un anello perfettamente integrato.

La formazione accademica dell’artista in epoca staliniana era infatti basata sulla tradizione che comportava la padronanza del disegno, della composizione e la conoscenza del repertorio iconografico classico, in particolare del Rinascimento italiano, ma anche della pittura sacra russa.

Prendiamo, per esempio, un quadro come «Il congresso panrusso dei Soviet» di Nikolai Pagodin (peraltro una replica da Belovsov): l’idea di Lenin che si rivolge a un gruppo di delegati del Congresso che interagiscono animatamente fra loro attraverso sguardi e gesti rivela uno studio molto ben «digerito» della Scuola d’Atene di Raffaello, nel particolare dell’affresco, a destra, dove sono protagonisti Euclide, Tolomeo e Raffaello stesso con un autoritratto. La composizione di Pagodin è ovviamente molto diversa, ma la sua struttura è impostata su quelle basi classiche, così solide da trasparire ancora in filigrana.

Anche Alexandr Moravov si ricorda di Raffaello quando dipinge il suo «Stalin parla nella fabbrica Dinamo» e mette il dittatore nella stessa posa escogitata dall’urbinate per l’apostolo Paolo nel cartone per l’arazzo con «La predica di San Paolo».

Sorprendente? Niente affatto, per i pittori è normale studiarsi e citarsi: l’hanno fatto tutti, persino i più grandi come Caravaggio che nella Vocazione di san Matteo ha copiato in maniera letterale il gesto di Dio nel riquadro con la Creazione di Adamo nella Sistina di Michelangelo. È il gesto dell’indigitazione, fra i più antichi della storia dell’arte e del teatro, raccomandato da Leon Battista Alberti nel suo trattato Della Pittura del 1435: «E piacemi sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere».

Il gesto della mano, o dell’indice che dirige l’attenzione verso qualcosa di preciso, come quello della Madonna nella Trinità di Masaccio o dell’Angelo nella Vergine delle rocce di Leonardo, è uno dei più usati dal Realismo socialista. In questo contesto tendiamo a sottovalutarlo come un gesto retorico, dettato dalla propaganda del regime, ma la verità è che il suo uso risale alla storia dell’arte più nobile. Lo stesso si può dire per le tante braccia tese enfaticamente in avanti che hanno illustri predecessori nella «Zattera della Medusa» di Géricault, una specie di campionario per questo tipo di gesto che tutti hanno sempre ammirato senza tacciarlo di grondare retorica.

E ancora, la grande «Donna controllore» dipinta da Aleksandr Samochvalov nel 1928 che vediamo in mostra è impostata come certe Madonne in trono bizantine realizzate a mosaico, per esempio quella in sant’Apollinare Nuovo. Allo stesso modo è fin troppo facile riconoscere la fissità ieratica e la schematica frontalità dei santi delle icone russe negli uomini messi in fila da Kazimir Malevic nella tela «Sportivi». Abbandonato il Suprematismo e la tabula rasa del «Quadrato nero», tornato alla pittura dopo avervi rinunciato, Malevic creò il Supranaturalismo per indicare l’unione di Suprematismo e Naturalismo, cioè la fusione del principio geometrico e astratto con quello figurativo fino a spingersi, nelle ultime opere, all’ispirazione diretta alla pittura rinascimentale italiana.

E così nell’«Autoritratto» del 1933 il pittore si dipinge, persino negli abiti, come Mantegna aveva affrescato il cardinale Francesco Gonzaga nella camera degli sposi del Palazzo Ducale di Mantova. È vero che Malevic fu incarcerato e ostracizzato dai sostenitori del Realismo socialista, ma non possiamo non far rientrare la sua ultima maniera nella sequenza dei molteplici ritorni all’ordine di quell’epoca.

Ce n’è abbastanza perché anche il Realismo socialista possa finalmente trovare il suo legittimo posto nella storia dell’arte come uno stile a tutti gli effetti e non un semplice linguaggio di propaganda.