Ultimo aggiornamento Martedì 15 Febbraio 2011 19:13 Scritto da Mirella Serri – Corriere della Sera

La guerra del Migliore contro le avanguardie che si ribellarono al realismo

«Tornammo a Roma gonfi di gioia. A Parigi tutto era esaltante…» . Non stava nella pelle per l’entusiasmo, per dirla con le parole di Pietro Consagra, la pattuglia di artisti— Accardi, Attardi, Sanfilippo, Turcato, Dorazio — che si arrampicava nel dicembre 1946 su per le stradine di Montmartre. Negli studi si riempivano gli occhi con le forme e i colori di Arp, Picabia, Man Ray, quasi per rifarsi dei tanti anni di arte autarchica a cui li aveva costretti il ventennio. Dopo questa grande bouffe di dadaismo, surrealismo, espressionismo, Consagra esultava: «I problemi di Guttuso non saranno più i nostri» . Non l’avesse detto: mai profezia fu più sbagliata. La strada non era per nulla spianata per gli adepti del gruppo di Forma 1 — vi aderiva lo stesso Consagra — o per i seguaci di Spazialismo e Nuclearismo, di Mac e del Concretismo, di Otto pittori e per altri ancora le cui opere saranno esposte al Museo d’arte di Ravenna nella mostra «L’Italia s’è desta. Arte in Italia nel secondo dopoguerra, 1945-1953» . Tutti questi artisti, che attingevano slancio ed energie dalla modernità, dall’Europa e dalla tradizione delle avanguardie, si rifiutarono di mettersi al servizio dei linguaggi più realistici e di immediata efficacia comunicativa. E si ritrovarono, quasi senza volerlo, coinvolti in un duro confronto-scontro interno alla sinistra. Fu tutto un tintinnar di lame nello Stivale in quegli anni postbellici e anche scrittori, uomini di spettacolo, filosofi e musicisti furono impegnati ad alzare barriere e a ostacolare le pretese dei «compagni politici» , così li chiamava Elio Vittorini. Il romanziere, di accuse e di cavillosi distinguo sui confini del fare artistico, ben se ne intendeva. Protagonista, sulle pagine da lui dirette del Politecnico, dell’acceso dibattito con il segretario del Pci sull’autonomia della cultura, tra le sue tante colpe aveva anche quella di aver dato spazio al pensiero filosofico-analitico di Bertrand Russell e di Wittgenstein che andava per la maggiore anche a Vienna e Berlino. Un duello finito, come tanti altri, con scomuniche e gran discredito («Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato» , Togliatti sbeffeggiava così l’abbandono del Pci da parte dello scrittore). Per non esser da meno del leader comunista, Luigi Longo, sostenuto da Mario Alicata, invadeva anche lui l’area della speculazione più moderna: attaccava Studi filosofici di Antonio Banfi, rivista rea di aver dato credito all’esistenzialismo francese. Nemmeno l’ambito musicale venne risparmiato. Il Migliore, accapigliandosi con Massimo Mila sulle composizioni di Shostakovic inviso alle autorità sovietiche e sulle sperimentazioni dodecafoniche, sosteneva: «Chi ha detto che dei problemi artistici debbano occuparsi solo i competenti?» . E Mila: «Chi ha detto che se ne debbano occupare gli incompetenti?» . Intanto, prima ancora dello sbarco nella penisola delle traduzioni dello stalinista Ždanov sulla partiticità delle opere d’arte, gli aderenti a Forma 1 si proclamavano «formalisti e marxisti» senza riconoscersi nel realismo dei Carrettieri che cantano o del Contadino che zappa di Renato Guttuso. Non bastava. Anche loro finirono nel tritacarne dei veleni e delle accuse di tradimento e pure al commissariato, venendo alle mani per diversità di vedute politiche con il pittore siciliano e con il suo «alter ego» , come Consagra aveva ribattezzato il critico d’arte Antonello Trombadori. Nel 1948 Roderigo di Castiglia (alias Togliatti) dava il colpo di grazia ai cavalieri dell’astrattismo. La mostra dell’Alleanza della cultura a Bologna era una «raccolta di cose mostruose» , di «errori e scemenze» e di «scarabocchi» . Dopo tante baruffe, Lionello Venturi nel presentare gli Otto pittori si sentiva di dover esibire un certificato di fedeltà: «Non sono chierici che tradiscono» . L’Italia s’era appena desta e già si stava assopendo in un crepuscolo di diktat e di richieste agli uomini di cultura tirati per la giacca dell’impegno civile e colpiti spesso al cuore, nella qualità dei loro prodotti (realismo finì per diventare sinonimo di «socialismo innovativo» e astrattismo di «conservatorismo di destra» ). Claudio Spadoni, curatore di questa bella rassegna, nella premessa al catalogo rileva che queste tumultuose esperienze di nuova arte del dopoguerra sono state dimenticate o sottovalutate in una lunga «storia di pregiudizi negativi» . Non era un caso. Il colore di quegli anni, lo sosteneva Pier Paolo Pasolini riferendosi anche alle tele di Guttuso, era uno solo: «Il rosso dell’operaio e il rosso del poeta, un solo rosso» . Gli artisti che non privilegiavano una sola tonalità e attingevano, sempre metaforicamente parlando, dalla variegata tavolozza delle avanguardie europee, furono vittime anche di pregiudizi estetici sui loro «scarabocchi» non progressisti e dovettero aspettare di essere ripescati dai sottoscala a cui erano stati destinati.