Scritto da GILLO DORFLES – Corriere della Sera

Perché al giorno d’oggi bisogna essere disposti ad accettare forme creative di avanguardia che ieri ci sembravano aliene

Molte delle più recenti manifestazioni dell’arte contemporanea, dall’«arte povera» italiana alla ormai antica epopea della Pop, sino alle molteplici versioni dell’arte concettuale, alle installazioni, alla transavanguardia, alle performance, hanno presentato opere che non rispondono più a quelle costanti che ancora le «avanguardie storiche» seguivano.
Oggi assistiamo a delle brusche virate: dal figurativo all’astratto (e viceversa) dal concettuale al dozzinale, dal privato al «mercato». Il che non significa né disprezzo né sottovalutazione di quanto l’arte odierna ci offre, ma piuttosto necessita di una valutazione dei rapporti tra creazione artistica e situazione socioeconomica, che appare più diretta (e più pericolosa) rispetto all’immediato passato. Ho detto «pericolosa» senza affatto voler svalutare la qualità di molte realizzazioni contemporanee; anzi con la stessa parola «valore» si dovrebbe tener conto non solo del valore estetico, ma di quello economico: il che purtroppo avviene soprattutto a favore del secondo. In altre parole: difficilmente possiamo scindere la valutazione di un grande maestro contemporaneo da quella che è la sua quotazione sul mercato, che ovviamente dipende dal genere dei rapporti odierni tra marketing e attività artistica. Il che non significa che l’opera debba sempre corrispondere alla sua valorizzazione «venale» (che potrà emergere anche solo «postuma»: con scarsa soddisfazione dell’artista!). Il che significa oltretutto che l’alone (o vogliamo addirittura definirla alla Benjamin «l’aura») del capolavoro può esistere anche se «sporcata» dai «denari» di qualche «Giuda artistico».
Non vorrei che si giudicasse il mio discorso come eccessivamente banale e antiestetico, ma è soltanto la volontà di chiarezza che mi spinge a tener conto di alcuni dati che un tempo non erano palesi: basterebbero le recenti mostre di «arte povera» a imporre una visione dell’arte che non è mai stata applicata in passato.
Questo fatto, se da un lato può condurre a facili equivoci circa il limite entro cui considerare lo «status» di un’opera; dall’altro, ci permette di apprezzare alcune situazioni e alcuni fenomeni che mai prima d’oggi erano entrati nell’universo artistico, e di tener conto che, non solo un determinato materiale «improprio», ma l’idea che ne è stata alla base, può essere la vera discriminante per la valutazione d’una creazione originale. Ma, al di là di momenti estremi, di trovate assurde, di stratagemmi aleatori, continuano per fortuna, e continueranno, a popolare l’universo artistico moltissime opere dove il linguaggio non è criptico senza essere desueto. Basterebbero solo i nomi di un Kiefer e di un Chillida, di un Kapoor e di un Pomodoro, ma anche quelli di un Cattelan e di una Vanessa Beecroft e, perché no, di una Cindy Sherman e di una Bourgeois (e ho fatto a bella posta nomi arcinoti), per dirci che esiste una continuità artistica anche quando alcune improvvise obnubilazioni — peraltro feconde — intervengono ad oscurarla temporaneamente.
Credo che al giorno d’oggi dovremmo essere pronti ad accettare numerose forme creative che ieri ci sembravano aliene; mentre dobbiamo essere altrettanto pronti a biasimare tutto ciò che di stantio e di obsoleto si tende a riproporre. E questa posizione ci convince che la nostra «stagione» attuale è forse più «robusta» di molte di quelle (del passato) che non seppero «liberarsi» in tempo delle scorie ormai desuete.
Certo alle volte il «nuovo» può non essere «piacevole» (già Vasari ce lo insegnava a proposito del gotico); e, del pari, il «piacevole» può non essere «nuovo»; sicché dovremo imparare ad accettare le nuove correnti artistiche anche se non sempre sono edonistiche e, del pari, a rifiutare tutto quanto è obsoleto ed entropizzato, anche se ha l’apparenza del gradevole.